"Una giostra di duci e paladini"

Per quattordici anni, dal 1997 al 2011, Alberto Cassani è stato l'assessore alla Cultura di Ravenna. Comunista. Gente seria. Scuola d'un tempo, ammirata pure da chi le dista un miglio come me. La nostra è un'amicizia antica.

Il primo romanzo, l'ha scritto tre anni fa. "L'uomo di Mosca" (Baldini+Castoldi).

L'ideale intenso, coltivato a Gramsci e militanza, non vi faceva solo sfondo, ma traluceva dalla storia tagliando rughe e vaghezie dei protagonisti e proprî.

Come in quest'opera seconda, "Una giostra di duci e paladini" (sempre Baldini+Castoldi), uscita un mese fa e che racconta di un uomo, Victor Costa, intellettuale in gioventù - con tutti i sogni spesso troppi della gioventù, che per meglio guadagnare li ripone nella sacca del fuggiasco dalla vita e si volta, maturo e senza più altezze, al giornalismo dei pettegoli.

Un giorno, per sbaglio, riceve la registrazione compromettentissima di una conversazione del Capo politico più importante del Paese. Rischia così la vita e scompare da Milano a Parigi, poi a Bangkok. Lo cercano i suoi amici di una volta, scoprendo mano mano che con lui cercano se stessi, in corsa coi ricordi e le domande ancora aperte dietro gli anni ormai lontani dell'impegno e formazione, trascorsi attorno all'avventura insieme della "Città del Teatro" e al capo buono del racconto.

Questi è Amleto Coen, vecchio comunista che ai suoi ragazzi, non senza sentire il peso d'esserne il maestro, continua a leggere il mondo come incatenato ai fallimenti d'una generazione intera: la loro, e forse anche la sua. Fallimenti, che sono poi il problema dei cinquantenni d'oggi, di quelli come Cassani e me, tutti più o meno punzonati da un'unica matrice, o comunque più importante delle altre: la difficoltà di continuare a coltivare, o almeno accarezzare, la speranza, virtù che alla storia cammina controverso, ma è l'unica a poterla trasalire. Coen, fedele idealista, ne sente appunto il peso di maestro - ma va pur detto che non è colpa tutta dei maestri se gli allievi non riescono; e così commuove, il suo tenero eroismo.

Nel Capo, invece, del romanzo, con la C maiuscola nel testo, si scorge una sorta di Salvini. Però è lui stesso, oggi, a non volere più tenere i modi che l'hanno reso "il Truce", nella definizione di Ferrara. E giustamente. La svolta recentissima col Governo Draghi è stata inaspettata, spiazzante, ma decisa; e chi, come me, non gli risparmiò mai critiche negli anni - e però conosce la sua lealtà ammirevole nei moti personali, legge allora le pagine di Cassani, più che a mo' di un ritratto vero e proprio, come il suggerimento letterario a non voler rassomigliare tra vent'anni al protagonista negativo del racconto. E la coincidenza di questi giorni d'unità politica d'intenti con l'uscita del romanzo, a questa mia lettura, sembra quasi dare ben augurante passo.

Dentro "Una giostra di duci e paladini" ci sono Ravenna e l'Italia degli ultimi decennî. La città e il Paese. Il particolare e il tutto. Il dettaglio e l'insieme. La storia, con gli onori e i disonori della cronaca. I personaggi degli anni nostri e quelli addietro, qualcuno famoso in tutto il mondo. Pessimi duci e nobili paladini. E c'è la luce aurorale di Romagna, che sveglia infine un'appendice inaspettata di romanzo nel romanzo. S'abbraccia alla memoria e resta lì. Permane. Qualità che non molti libri d'oggi hanno. Malinconia d'un tempo creduto di salvezza, e invece era solo d'illusione.

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