Lilia Bicec, fatti non fummo per viver come badanti

Come giornalista, può vantare una vaga somiglianza con Milena Gabanelli, ma non è mai stata candidata alla presidenza della Repubblica italiana e nella sua patria d’origine aveva trovato posto, per meno di 200 euro al mese, solo nel settimanale Lunca Prutului (Pianura del Prut), dal nome del fiume che divide la Moldavia dalla Romania, appena quattro redattori, organo del comitato esecutivo del Partidul liberal di Glodeni, distretto di 15 mila abitanti.

Come moglie, è dovuta scappare da un marito manesco e alcolista, "un mio connazionale", un eterno studente che s’è fatto mantenere per nove anni, che la picchiava se ritardava nel preparare la cena al ritorno dalla redazione, salvo poi chiederle perdono, e che una volta la alzò da terra e la sbatté con forza contro il muro, alla maniera del piatto di spaghetti che Alberto Sordi scaglia contro la parete del tinello in Un borghese piccolo piccolo, tanto da mandarla all’ospedale.

Come madre, alle 5 del mattino del 13 dicembre 2000 s’è rassegnata a dare un bacio straziato ai figli Cristina e Stasi, "le luci della mia vita, avevano 10 e 8 anni", ancora addormentati nei loro lettini, e a partire per un viaggio verso l’ignoto, verso l’Italia. Non poteva sapere che il destino l’avrebbe condotta a Verona, dove in quel giorno i fanciulli si risvegliano tra i regali portati nella notte da Santa Lucia, mentre i suoi bimbi non avrebbero più trovato la loro mamma, costretta per 11 anni, di cui tre da clandestina, a fare la baby-sitter, la colf, la badante, la stiratrice, la donna delle pulizie nei bar tra Lombardia ed Emilia-Romagna.

Da allora, l’unica forza che ha tenuto in vita Lilia Bicec, nata nel 1965 a Viişoara, laureata in giornalismo all’Università statale di Chisinau nel 1989, è stata quella delle lettere che per cinque lunghi anni, ogni settimana, avrebbe voluto spedire ai figli lasciati in Moldavia e che invece ha tenuto chiuse in un cassetto, "erano troppo piccoli per capire", e che ora sono diventate Miei cari figli, vi scrivo, un libro edito da Einaudi. Sapeva che un giorno sarebbe tornata a riprenderseli e gliele avrebbe fatte leggere una alla volta, con calma.

Non ce n’è stato il tempo. Non per Stasi. "La sera del 13 gennaio 2008 hanno bussato alla porta tre poliziotti. Un incidente sulla tangenziale ovest di Brescia. Morto sul colpo. L’auto era guidata da un amico moldavo, che aveva conosciuto da meno di due settimane e che non s’è fatto nulla". Adesso Lilia Bicec rammenta solo la faccia pulita da diciassettenne, le mani graffiate e gelide all’obitorio, le lacrime che le scendevano dalle guance fino a riempire gli occhi del figlio chiusi per sempre. E ricorda anche di avergli sussurrato: "Non piangere, bambino mio. Lo so che ti dispiace lasciarci".

Periferia di Brescia. I colori pastello dei villini della nuova lottizzazione Violino, cangianti dall’acquamarina al lillà, stridono con le tinte fosche della storia di ordinaria emigrazione raccontata nell’epistolario sfociato in tragedia. L’unica nota di allegria viene dalle ceramiche appese in cucina: il Lago di Garda, l’Arena di Verona, la basilica della Salute di Venezia, il Duomo di Milano, il Colosseo, Porto Venere. Questa donna ama l’Italia più degli italiani, penso.

Stasi sorride ancora in salotto, dentro una cornice d’argento, rischiarato da un lumino che arde esitante. Quant’era bello! Il figlio che ogni mamma vorrebbe avere. Accanto, una microscopica icona russa: lo veglia Gesù. "Sono ortodossa, ma l’ho sepolto con rito cattolico. Luciano mi ha chiesto: 'Vuoi che lo riportiamo in Moldavia?'. Mai, ho risposto". Luciano Zanardelli è il secondo marito, sposato civilmente nel 2010; lavora nell’ufficio commerciale di un’industria siderurgica. Si conobbero in casa di amici. Lui si offrì di andarla a prendere all’aeroporto di Orio al Serio, quando nel 2006, proveniente da Bucarest, portò i due figli in Italia. Cristina vive ancora in questa casa, oggi più vuota che mai.

Perché scrivere decine di lettere se sapeva di non volerle spedire? 
Servivano a vincere il dor. Non ho trovato l’equivalente nella vostra lingua. Il  vocabolario romeno-italiano ne dà varie traduzioni: malinconia, nostalgia, desiderio, ricordo, brama, struggimento, sospiro. È tutte queste cose insieme. Dor di madre, dor di figli. Un’assenza dolorosa.

Esiste persino l’ostalgia, il rimpianto che molti dell’Est europeo provano per i regimi comunisti. 
Non io. All’occupazione russa della Bessarabia, nel 1940, mio nonno Gheorghe, poliziotto romeno, fu deportato al Circolo polare artico. Rimase ai lavori forzati a Murmansk fino al 1951. Mia nonna Anastasia, perseguitata come kulak perché possedeva un negozio di fiammiferi e sapone, finì a Kurgan, in Siberia, insieme con suo figlio Michail, il mio futuro padre. Idem Eugenia, che sarebbe diventata mia madre. Furono liberati soltanto nel 1956. Se tre anni prima non fosse morto Stalin, non sarebbero mai tornati.

Come ha imparato l’italiano?
Su una copia di Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, acquistata all’Auchan nel 2003. Ma dovrei dire che l’ho imparato sulle mani. Mi scrivevo ogni nuova parola sui palmi con la biro. Tornata a casa, cercavo il significato sul dizionario.

Da giornalista ha lavorato solo a "Lunca Prutului"?
Anche in una radio locale. Mi davano 25 euro al mese. Quando nel 1997 a Glodeni nacque il primo giornale indipendente, Accent provincial, mi feci assumere e m’ingegnai a raccogliere pubblicità pur di potere scrivere ciò che pensavo.

Perché decise di lasciare la Moldavia?
Nel 1998 fui mandata a frequentare un corso di giornalismo nell’Iowa. Al ritorno pensavo di trovare la stessa libertà di stampa conosciuta negli Stati Uniti. Non fu così. E a 300 lei al mese, che corrispondevano a 50 euro, non campi per molto.

Mi racconti dell’espatrio.
Eravamo sei donne con due guide.

Trafficanti di uomini, vorrà dire.
D’accordo, trafficanti. Avevo pagato in anticipo 1.400 dollari. In tasca me ne restavano 160. Dieci giorni di viaggio in autobus attraverso Ucraina, Slovacchia, Repubblica ceca. Di notte, sotto la pioggia, attraversammo a piedi e di corsa un bosco, fino a superare la frontiera con la Germania. Ci arrestarono subito. Impronte digitali, foto segnaletiche. L’umiliazione di doverci spogliare. Mi fu ordinato di togliermi anche gli orecchini e la catenina che portavo al collo. Cercai di oppormi. Mostravo Gesù nel ciondolo, poi lo coprivo con la mano quasi a volerlo proteggere e scuotevo la testa in segno di rifiuto per convincere la poliziotta a lasciarmi l’unico ricordo che mi restava di casa mia. L’immagine sacra finì in una bustina di carta. Divenni il numero di matricola 731. Il giorno seguente fummo consegnate alle autorità ceche, che ci ingiunsero di andarcene entro 10 giorni, ma dopo cinque penetrammo di nuovo in Germania. Di lì il viaggio fino a Verona.

Perché proprio Verona?
Lo ignoro. L’accompagnatore tedesco mi scaricò in piazza Bra alle 5 e ripartì a tutto gas. Non sapevo nemmeno dove mi trovassi. Nella foschia dell’alba vidi l’Arena. Chiesi a un tassista, in romeno: gara, gara. Non capiva. Finché mi uscì fuori la parola magica: treno. Pretese 10 dollari per portarmi alla stazione di Porta Nuova, distante un chilometro.

Il suo primo lavoro?
A Villa Carcina, nel Bresciano, in casa di una ex colf di 89 anni, nubile e analfabeta. Stavo lì dalle 2 del pomeriggio alle 6 del giorno dopo. Mi dava 250 euro al mese. Dormivo nel corridoio, senza riscaldamento e senza luce, solo con una coperta leggera in pieno inverno. Pretendeva che la chiamassi «signorina» e che le leggessi ad alta voce le preghiere. Passava un fazzoletto bianco sui mobili per accertarsi che li avessi spolverati. La sera mi dava da mangiare un panino raffermo e mezza mela.

Mezza?
Aveva fatto il conto che, con una intera, gliene avrei consumate un chilo a settimana. Con i primi soldi mi comprai tonno in scatola e grissini. Anche yogurt e latte. Chiesi il permesso di metterli nel frigorifero. Non mi rispose. L’indomani li trovai sul davanzale, andati a male. «In frigo non c’è posto» si giustificò. Era vuoto. Mentre lavavo le stoviglie, controllava che non aprissi il rubinetto dell’acqua calda. Un giorno me ne scivolò una dalle mani congelate. La signorina si mise a gridare che le distruggevo la casa. Io le mostrai il piatto intatto. Ma lei urlava come un’ossessa: «Sei una straniera, punto e basta!». Aveva ragione. Non ero che una disgraziata priva del permesso di soggiorno, dimagrita di 10 chili in poche settimane, anemica. Per strada vedevo i palazzi che mi danzavano intorno, avevo sempre paura di svenire.

Si stenta a crederci.
Alla mia connazionale Veronica, a servizio nella villa di un famoso produttore vinicolo a Cellatica, contavano il numero dei rigatoni nel piatto: non più di 12. Il mal d’Italia è una vera e propria patologia. Ne soffrono tutte le moldave immigrate. Sei intelligente eppure ti senti ignorante, sai leggere e parlare l’italiano ma non riesci a scriverlo. Ti umili, non rubi, fai un lavoro ingrato, non mangi, non guadagni, ti senti alienata. Pensavo: povera Lilia, una giornalista che lava i pavimenti. Ma l’avevo scelto io.

Come faranno le mamme moldave che non se ne vanno di casa?
Posso parlare solo per me. Mi sentivo in colpa perché Cristina e Stasi vivevano un’infanzia peggiore della mia. Non riuscivo a comprargli una torta di compleanno, un vestito, una bicicletta. Volevo dargli di più.

Però in una lettera ha scritto ai suoi figli: "Stando in Italia non vi ho fatto mancare i soldi, ma vi sono mancata io". Lo rifarebbe?
Sì, lo rifarei. Ma non so se lo consiglierei a una moldava. All’inizio il sogno di tutte è di stare via un anno e di tornare a casa con un gruzzolo. Ben presto scopri che lavori solo per restituire i soldi del viaggio presi in prestito. Alcune mie amiche hanno dovuto pagare 4 mila dollari per essere portate in Italia. Gli interessi mensili arrivano al 15 per cento. Meno paghi e più il tasso usurario aumenta. Diventi una schiava, una prigioniera.

Con quale stipendio?
Da baby-sitter per 300 euro al mese vivevo 24 ore su 24 in una famiglia di Baricella, che almeno mi voleva bene. Però non avevo neppure carta e penna. Fu lì che strappai di nascosto da un quaderno due fogli a quadretti su cui scrissi la prima lettera ai miei figli. Al massimo sono arrivata a mettere insieme 1.200 euro lavorando un mese come donna delle pulizie in varie case dalle 8 alle 20.

Il fatto di essere laureata l’ha aiutata?
Forse a comprendere meglio la gente, a sopportare i difetti dei miei datori di lavoro, a non offendermi, a conoscere di più e meglio la storia d’Italia.

Che cos’è per lei l’Italia?
L’Italia è bella. Ho sempre visto soltanto il suo lato migliore.

Quale sarebbe?
Siete sensibili.

E il peggiore?
Ci respingete, soprattutto qui al Nord. Ma è normale che i forestieri non v’ispirino fiducia. Arriviamo senza documenti. Non sapete chi siamo, da dove veniamo, che cosa facciamo. La cameriera di un bar qui vicino mi ha detto: "Vi credete straniere solo voi qua? Dieci anni fa, quando arrivai a Brescia da Napoli, ero anch’io una straniera".

Sua figlia Cristina l’ha mai rimproverata d’averla abbandonata in Moldavia?
Ne abbiamo parlato una sola volta. Tre ore di pianto. Alla fine ha concluso: "Mami, ho cancellato tutto. Non voglio ricordare". Neppure io.

E Stasi?
Era sempre d’accordo con me. Una domenica, al telefono dalla Moldavia, mi strappò il cuore: "Mamma, quando tornerai, non ti lascerò più andare via". Invece è andato via lui e non tornerà. Eppure so che il Signore mi dà la forza di sopravvivere a questa terribile prova.

Come lo sa?
Pur non essendo praticante, ho sempre nutrito rispetto per Dio e per la religione. Non paura. Rispetto. Quando ti muore un figlio, non sei più tu. Viene meno il raziocinio, ma nello stesso tempo scopri d’essere molto risoluta: voglio il funerale cattolico anziché quello ortodosso, voglio la benedizione di padre Agostino, voglio seppellirlo qui e non in Moldavia. Allora capisci che qualcun altro sta decidendo al posto tuo. Una forza che viene da fuori. E mai mi sono rammaricata delle scelte fatte in quei momenti di confusione mentale. Perché?

Non ha perso la fede.
Devi aggrapparti a qualcosa di più alto per non sprofondare. Ho provato a darmi una ragione.

Qual è questa ragione?
C’è un destino.

Annalena Benini, una giornalista che ha affidato i suoi due bimbi a una tata moldava, ha scritto sul «Foglio» che sono brave le donne manager, ma le immigrate lo sono ancora di più. Come mai dal suo paese non se ne vanno gli uomini?
Michail, il mio ex marito, andò fino a Rostov, in Russia, più di 1.000 chilometri da casa, per coltivare le angurie. Stette via sei mesi e tornò a mani vuote: non l’avevano pagato. Quello dall’Est europeo è un esodo femminile, soprattutto verso l’Italia, una nazione invecchiata dove mancano badanti e infermiere. Sono stata fino a Pavullo nel Frignano, sull’Appennino, ad assistere un uomo quasi ottantenne, vedovo da cinque anni, malato, in una casa che solo due cani e i polli non avevano abbandonato. E dopo di me è rimasta la mia amica Marcela, altrimenti chi si sarebbe occupato di lui?

Le moldave si separano dai figli per venire ad allevare quelli delle italiane e le italiane lasciano i loro alle moldave per andare in ufficio. Non c’è qualcosa di storto in tutto ciò?
Non basta volere bene a un figlio: devi anche offrirgli la possibilità di mangiare, di studiare, di avere un futuro. Per questo partiamo dalla Moldavia. Nell’accudimento dei vostri bambini mettiamo anche l’affetto per i nostri. È una solidarietà fra donne. Avete bisogno di mamme che sappiano cos’è l’amore per un figlio. 

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