Lifestyle
December 27 2018
Lilli è vero che da piccola volevi fare la suora?
(Sopracciglio alzato). Sì, avevo otto anni.
Ah.
(Sorriso). Però, come vedi, mi è passata.
Eri laica, ma sei stata educata dalle suore.
Sia le Piccole figlie di san Giuseppe sia le suore Marcelline.
A Verona e poi Bolzano. Ma il momento più duro è stato alle elementari.
Immagina una bambina, che parla solo tedesco, che si ritrova in un mondo tutto diverso, spedita a scuola tutti i giorni, nella città di Romeo e Giulietta, anche in costume tirolese.
Anche tuo fratello?
Lui ancora più sfortunato di me: con i knickerbocker di pelle corti.
E non era facile in quegli anni.
C’erano ancora le ferite della guerra.
Addirittura?
Nell’aula della terza elementare, in un giorno che non scorderò mai, entrò una suora che ci raccontò quanto fossero cattivi i tedeschi, che uccidevano dieci italiani ogni loro commilitone morto, e poi con il grasso dei loro cadaveri ci facevano il sapone.
Parlava dei nazisti.
No, dei «tedeschi». E nella classe, improvvisamente muta, una compagna, mi puntó il dito addosso, esclamando: «Anche tu, Gruber, sei una di quelli!».
E avevi anche il problema della lingua.
Un giorno all’asilo, dopo sole tre settimane, la suora maestra chiamò mia madre e le disse: «Guardi che se a casa continua a parlare a sua figlia in tedesco, Lilli non riuscirà mai a imparare l’italiano».
E tua madre cosa rispose?
«Sorella: non so quando Lilli imparerà l’italiano, né come. Ma sono sicura di una cosa. Quando lo parlerà, lo farà di certo meglio di tutte le altre».
Tutti pensano di conoscere Lilli Gruber perché è nelle nostre case - nell’orario di punta - dal 1993. Tutti pensano di sapere molto di lei, ma spesso sono cliché, che infatti sono sempre cambiati negli anni. Ho scoperto, seguendola in alcuni eventi pubblici, uno dei suoi più grandi segreti: ci sono almeno 1-10-100 Gruber. E non c’è donna italiana che, con almeno una di «queste Lilli», non si identifichi un po’. A Roma - in una delle rare presentazioni del suo ultimo libro, Inganno - c’erano volti noti e donne di popolo, dame della Roma di sangue blu e attrici, donne progressiste e conservatrici, tutte in fila per un autografo. Infatti il libro è da settembre tra i più venduti.
Inganno è il terzo atto di una quadrilogia sulle radici della tua storia.
(Scuote la testa). Per scriverlo ci ho messo due anni. Ma è una trilogia, non credo ci sarà mai un quarto volume!
Sei in cima alla classifica da mesi - e per la terza volta - con un libro che parla del Sud Tirolo.
Io sono convinta che quella terra, in apparenza piccola e periferica rispetto agli imperi e alla repubblica, sia stata un crocevia importante, sia per la storia d’Europa sia per quella del nostro Paese.
Se ci fosse stata un’invasione russa sarebbe passata da lì.
Per questo in Tirolo, o Alto Adige, c’erano tutti: militari, spie, nazionalisti, neofascisti e, come sai, i primi terroristi della storia italiana, con le bombe ai tralicci di cui racconto la genesi. Una storia avvincente.
C’è poi il tema delle identità nazionali.
La heimat. Ho conosciuto il nazionalismo delle «piccole patrie» da bambina. L’ho ripercorso attraverso i diari di mia nonna, la storia della mia famiglia, il lavoro di ricerca e le interviste che ho fatto per i tre libri.
Hai raccontato dei ragazzi sudtirolesi che sono andati a morire per Hitler sui fronti orientali.
In ogni paesino della mia terra c’è un cimitero dove si possono trovare, sulle tombe, le foto di ragazzi con le divise della Wermacht. Spiego e racconto le ragioni che hanno prodotto queste scelte.
È una storia incredibile.
In quegli anni tutti i sudtirolesi erano profondamente antifascisti, ma la maggioranza era filonazista. Ciò mi affascina e ho provato a raccontarlo.
Sei riuscita a raccontare una contraddizione a prima vista incomprensibile.
Proprio perché ho ripercorso quella vicenda di oppressione, sangue e passioni mi sento sudtirolese, nata in una zona di confine, e - soprattutto - cittadina d’Europa.
Hai intervistato gli ex terroristi.
Mi spaventa quando mi dicono che non hanno alcun rimorso.
Hai tenuto assieme narrativa e inchiesta giornalistica. Se arriverai ai giorni nostri, dovrà essere una biografia.
Perciò non scriverò un quarto libro.
Tuo padre Alfred era un imprenditore.
Un uomo bello come il sole, severo, ma per i suoi tempi molto moderno.
Soprattutto rispetto ai suoi tempi.
Avevo 10-11 anni, quando spiegò a me e a mia sorella come avveniva la riproduzione, disegnando su fogli bianchi il cammino degli spermatozoi.
A dieci anni?
Fu una sorpresa, ma salutare.
Fu sempre lui a far sfumare in te l’idea di prendere i voti.
Uomo illuminato: a 16 anni mi mandò a Londra da sola.
Un trauma?
Era la Gran Bretagna della Swingin’ London: i Beatles, i Rolling Stones, la liberazione sessuale e la minigonna. Entrai pure in un cinema porno. Appena arrivata, la padrona di casa ci diede le chiavi e ci disse: «Portate in camera solo ragazzi perbene».
Ti sei adeguata al codice della casa?
(Sopracciglio). Non essere indiscreto. Il genio di mio padre era questo: a 16 anni avevo il permesso di fumare, ma con una restrizione: «Solo tre sigarette!».
Avete avuto grandi scontri quando eri adolescente.
Ma quando è morto, in un incidente, il rapporto era di profondo amore e stima.
Tua madre, chiamandoti Dietlinde, non è stata leggera.
Nell’antica lingua germanica significa: «Colei che guida il popolo». Reminescenze di una prozia appassionata di storia.
Impegnativo, direi.
Nel mio Dna ci sono l’idea della frontiera e quella dell’integrazione.
Perché?
Proprio perché da piccola sono sempre stata considerata una «diversa». A casa parlavo il tedesco e le tradizioni di famiglia erano decisamente austro-ungariche. Ma si può essere diversi ovunque.
Tuo padre ti voleva in azienda, tu rifiutasti.
Per anni ho fatto analisi: la lettura di tutto Freud, Jung, Basaglia e della nuova psichiatria mi hanno aiutata molto.
Hai un fratello e una sorella, ma nessuno di loro è giornalista.
Winfried, il primogenito, è architetto e musicista jazz. Mia sorella, Friederike - detta Miki - coach per la Pubblica amministrazione e le imprese.
Ti sei sposata tardi, a 43 anni, a Montagna, vicino alla casa di famiglia.
Vedi come si cambia? Ero contro il matrimonio, e dicevo: «Mai un figlio, mai un marito».
Hai raccontato solo una volta, da Caterina Balivo, in un’intervista tra donne: «Poi ho incontrato l’uomo della mia vita». Come nei romanzi d’amore.
È accaduto a Baghdad, mentre eravamo entrambi inviati di guerra. Ho capito che Jacques era importante per me, ma non avevamo garanzie per il futuro.
Jacques Charmelot non sapeva che già eri il volto più noto della tv italiana?
Non aveva idea di chi fossi. Ci siamo innamorati, ma... non eravamo liberissimi. Le vite sono complicate. Ci siamo aspettati e oggi mi pare un bene: per entrambi è un grande amore.
Un giorno hai dato una delle ricette più belle su come deve sopravvivere una coppia.
Litigare dieci volte e chiedere undici volte scusa... Jacques è francese, ma di quelli sopportabili, perché ha studiato negli Stati Uniti. È simpatico e intelligente, un uomo di grande fascino, mi fa ridere perché, non ci crederai, ma a volte posso essere un po’ pesante.
Hai questa ironia che ti salva.
(Sospiro). Non raccontiamolo in giro.
Sei consapevole di quanto puoi essere dura?
Nella vita e nel lavoro ci vuole disciplina. Venendo dall’impero austro-ungarico, e dalla biografia che ti ho detto, ho avuto un’educazione un po’ prussiana.
Però hai anche delle caratteristiche latine, ben nascoste.
Stai facendo molte domande indiscrete.
Lo dici tu che hai chiesto a Di Maio e a Salvini di Giovanna e della Isoardi?
(Sorriso). A entrambi ho consentito di smarcarsi.
Una volta hai chiesto a Monti: «Lei è massone?».
Era una domanda da fare. Per la cronaca ha risposto «no».
Alla Boschi hai chiesto del famoso fotomontaggio al giuramento!
Era su tutti i siti web, sarebbe stato assurdo non chiederlo.
Vedi che anche tu sei insistente?
Nel giornalismo anglosassone è considerato doveroso. Poi l’intervistato può dire «non rispondo».
A vent’anni avevi due possibilità: l’Alto Adige o la Rai. E hai chiesto consiglio al grande scrittore Goffredo Parise.
È vero, tra gli altri. Chiacchierammo dopo un’intervista. Pensa che mi disse: «La tv è il futuro. E tu la fai bene».
Il tuo primo maestro, Silvano Faggioni, caporedattore di Telebolzano.
Mi spiegò: zero chiacchiere, niente politichese. Le notizie prima di tutto. Lo risento ancora oggi, ogni volta che facciamo la scaletta di Otto e mezzo.
Antonio Ghirelli, grande direttore socialista del Tg2 ti chiese: «A che partito appartieni?».
Gli risposi: «A nessuno». Era la verità.
E lui?
Sorrise e disse: «Allora devi essere figlia di un invalido di guerra».
Sei la stata la prima donna a condurre un tg in prima serata.
Fu grazie ad Alberto La Volpe, nel 1987. Prima c’erano solo tre maschi. Per loro fu uno choc.
Demetrio Volcic, nel 1993, ti promosse alla conduzione delle 20.
E pensa che io volevo fare solo l’inviato!
Diventasti per tutti «Lilli la rossa». Per la politica o per il colore dei capelli.
Erano entrambe sciocchezze. Mi piaceva fare il mio mestiere e ho sempre sfidato i miei critici a trovare un elemento di faziosità in un mio servizio. Quando si parlerà anche dei parrucchieri degli uomini sarà un passo avanti.
Hai avuto un rapporto burrascoso con un altro tuo direttore, Bruno Vespa.
Una volta mi disse: «Sei stata troppo dura con Giuliano Amato».
E tu?
Andai da Amato per chiedergli cosa ne pensasse. Mi rispose: «Non mi pare». Pratica chiusa. Però con Vespa c’è un rispetto di fondo. Non ero d’accordo con il suo discorso sull’editore di riferimento, la Dc, e lui sapeva come la pensavo. Si rivoltò la redazione e fu costretto alle dimissioni.
Pochi sanno che hai condotto anche all’estero.
Nel 1995 il settimanale Focus TV, sulla tedesca Pro Sieben, e nel 1998 un talk show sull’Europa per SWF. Grandi palestre.
Ti sei candidata e dimessa da eurodeputata. Lo rifaresti?
Lo rifarei. Ma dopo quattro anni e mezzo ho lasciato la poltrona rinunciando a 3.300 euro mensili di pensione e non me ne sono mai pentita.
È un peccato avere amici politici?
No. Lo è se questa amicizia fa ombra al tuo mestiere di giornalista.
Tuo marito Jacques dice che sei una «control freak». Che significa?
Mi sveglio spesso, accendo la radio, ascolto la gente che parla, non la musica, cerco di scacciare dalla testa i pensieri.
Vabbè, sei malata di lavoro.
Sono prussiana, te l’ho detto.
Non ingrassi perché segui folli diete new age. Poco prussiane, anche queste.
Non bevo, se non nel week-end. Mangio poca carne, molta frutta. In redazione mi porto un sacchetto di pistacchi e mandorle per la merenda.
È vero che Armani ti ha regalato l’abito da sposa?
Sì, siamo diventati amici, tanto tempo fa. Accetto di comprare gli abiti con uno sconto, ma insisto per pagarli.
Spiega perché.
Per un codice deontologico che mi sono data. Ho rifiutato anche un contatto per indossare gioielli. Il nostro cammino è disseminato di trappole.
Hai passioni segrete per Bach, Chopin, Mozart. Ma anche Madonna, Tina Turner e Michael Jackson. E nel jazz per Miles Davis!
Mi sono formata nel 1977 e oltre al rock ballo anche valzer e tango, se è per questo.
Hai un editore severo che ti telefona dopo ogni puntata.
Sì, ma non è Urbano Cairo. Mia madre, 91enne, tutte le sere guarda Otto e mezzo. Poi mi chiama per commentare e mi dice: «Pinco mi è piaciuto, ma Pallo no».
Aldo Grasso ha scritto: «Lilli non si espone mai, gioca di sponda. Il suo pensiero emerge dai sorrisetti di complicità e d’intesa, da certe smorfiette, dagli “umh!” con cui esprime diffidenza e cautela».
(Sorriso). Uhm... Se non lo facessi pensa che noia. Grasso lo scriverebbe di sicuro.
C’è una letteratura scientifica sulla tua conduzione «di tre quarti»: per alcuni seduttiva, per altri dominante, per altri ancora dettata dalla fotogenia...
Nessuno studio. Falso. nasceva da una mia postura e dall’uso di due telecamere ravvicinate al Tg2.
Dopo dieci anni di programma hai una concorrente donna, e fissi addirittura il record.
Non è retorica dire che la concorrenza aiuta. Barbara Palombelli è stata uno stimolo, come Maurizio Belpietro e Paolo Del Debbio, ed è bravissima.
L’Europa è una delle cose a cui tieni di più. In trasmissione bacchetti sempre gli euroscettici.
L’Europa non va bene così come è.
Che fai cambi idea?
Al contrario. Di sicuro ci sono tante «riparazioni» da fare, ma da questo a distruggere questa grandissima costruzione di pace, benessere e diritti ce ne passa.
Il Foglio, con Adriano Sofri, ti ha proposto come guida di una lista unitaria europea. Peppino Caldarola ha scritto: «Magari, raccolgo le firme!».
(Risata solare). Ho già dato!
(Articolo pubblicato nel n° 1 di Panorama in edicola dal 19 dicembre 2018 con il titolo "Ecco perché mi sono messa di traverso")