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July 27 2018
In Basilicata i vertici di leghisti e grillini hanno cominciato a ragionare sull'idea di importare la formula che tiene in piedi il governo nazionale a Roma anche a livello locale, nelle prossime elezioni regionali.
In Abruzzo stesso discorso: Matteo Salvini, in una delle sue incursioni, ha detto che non è per nulla scontato che il Carroccio debba andare con il centrodestra. Nelle elezioni del presidente della Commissione di Vigilanza Rai, poi, i leghisti hanno fatto penare il candidato di Forza Italia per la presidenza, Alberto Barachini, prima di dargli il proprio sostegno.
"Lo hanno votato solo alla terza votazione" rileva l'ex-presidente del Senato ed esponente di Forza Italia, Renato Schifani "e questo dovrebbe insegnare molte cose a chi è ancora convinto che la Lega punti sull'alleanza con noi". Per ora si tratta solo di segnali, magari frutto del confronto estenuante che contrappone le diverse anime del centrodestra, in questa interminabile stagione elettorale.
Ma c'è anche chi è convinto che più andrà avanti l'esperienza del governo gialloverde e più la vecchia alleanza diventerà un pallido ricordo. E non sbaglia. "Più passa il tempo" teorizza Renato Brunetta da settimane "e più l'alleanza tra leghisti e grillini rischia di diventare irreversibile". In effetti i due partiti stanno subendo un processo di contaminazione: sull'immigrazione, cavallo di battaglia di Salvini, anche se l'ala di sinistra dei 5 Stelle è in sofferenza, il vertice del Movimento e la sua "anima governativa" stanno assecondando la politica del ministro dell'Interno; sul decreto dignità, invece, fiore all'occhiello di Giggino Di Maio, che sta facendo insorgere tutti i piccoli e medi imprenditori del Nord-est, serbatoio del consenso leghista, il leader leghista sta creando le condizioni per una mediazione che non metta in imbarazzo il suo interlocutore, e che, addirittura, potrebbe sfociare in un voto di "fiducia" per mettere in riga i leghisti più riottosi ed evitare intese parlamentari sotterranee tra loro, Forza Italia e Giorgia Meloni.
"Noi non mettiamo bocca" è il ragionamento con cui Salvini spiega il rapporto con i grillini "sui temi che sono cari a loro; e loro non interferiscono sulle nostre politiche". Insomma, un equilibrio che si basa sulle sfere d'influenza, corroborato da una politica sulle nomine che dovrebbe permettere alle due forze di ridisegnare la geografia del potere. Un processo che, allungandosi nel tempo, potrebbe, però, modificare profondamente la stessa identità di Lega e 5 Stelle. "Lo sbocco" osserva Rampelli, uno dei collaboratori della Meloni "potrebbe essere un'alleanza vera e propria; oppure, uno schema che preveda l'alternanza tra i grillini, nel ruolo della sinistra, e la Lega, nel ruolo della destra".
Un rapporto che, invece, l'economista del Carroccio, Armando Siri, esemplifica in questo modo: "Facendo dei paragoni con il passato, loro potrebbero rappresentare la Dce noi, che abbiamo più carica innovativa, il Psi". Al di là degli esempi, più o meno arditi, appare evidente che nella nuova cosmogonia politica gialloverde non ci sia spazio per nessuno: agli altri al massimo è concesso il ruolo di satelliti piccoli piccoli dei due grandi pianeti, Movimento 5 stelle e Lega. Se a questo schema "pigliattutto" aggiungiamo poi i discorsi di Davide Casaleggio sulla fine del parlamentarismo, ci si accorge che l'"ego" politico gialloverde non ha confini.
Se ne sono accorti un po' tutti. Anche chi, in passato, aveva teorizzato un rapporto simbiotico con il Carroccio e ora sta rifacendo i suoi conti: Giovanni Toti, ad esempio, non parla più di lista unica tra Lega e Forza Italia. "Salvini" è, invece, il commento laconico che in queste settimane Silvio Berlusconi ripete spesso ai suoi "deve spiegarci quali siano le sue reali intenzioni: noi non possiamo logorarci aspettando Godot. O lui ritorna nel centrodestra, o noi dobbiamo guardare al futuro".
(Articolo pubblicato sul n° 32 di Panorama in edicola dal 26 luglio 2018 con il titolo "Altro che provvisoria: L'intesa tra Lega e 5 Stelle può andare lontano")