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December 14 2015
Putin e Obama. Due leader a confronto. Due politiche contrapposte. Due modi di affrontare le crisi.
Dai servizi segreti alla guida di uno Stato
Putin radicato nella propria formazione di alto dirigente dei servizi segreti, immerso nella concretezza delle vicende di Stato che presentano, sempre, due livelli.
Uno pubblico, l’altro nascosto. Senza ipocrisie, senza peli sulla lingua, senza remore.
Forte del proprio consenso in patria. Spavaldo nel trattare la dissidenza.
Un leader di polso che rivendica l’interesse nazionale ed è prontissimo a difenderlo con le armi, se necessario. Tanto, è lui a rispondere a se stesso delle proprie decisioni.
Putin che vede nell’espansione della NATO una minaccia, nella proliferazione dei piccoli Califfati affiliati allo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi una sfida e una dichiarazione di guerra.
Putin agisce con la spavalderia del capo che ben conosce i rapporti di forza e decide da solo la pace e la guerra. Ma Putin è anche un politico dalla grande tattica. Basta guardare come ha distratto la pubblica opinione planetaria dalla guerra condotta in Crimea e attraverso i ribelli filo-russi del Donbas in Ucraina orientale.
L’ha distratta sferrando un attacco in Siria tenendo in vita il dittatore Assad, senza temere le ritorsioni terroristiche che pur ci sono state (la bomba a bordo del Metrojet in volo dall’Egitto a San Pietroburgo, precipitato in pezzi nel Sinai).
Putin non ha esitato un attimo a prendere posizione a favore degli sciiti, dell’Iran sciita e di Assad filo-iraniano, in quella che appare come la contrapposizione ciclica, epocale, tra le due anime dell’Islam: quella sciita, appunto, e quella sunnita che fa capo da un lato ai Paesi del Golfo, in particolare all’Arabia Saudita, dall’altro alla Turchia di Erdogan.
Niente paura. Putin è uomo dalle decisioni rapide. Ed energiche.
Obama: "Nessuna missione di terra"
E Obama? Si vede il suo approccio dalla mollezza diplomatica del suo segretario di Stato, John Kerry, che nella Conferenza di Roma sulla Libia ha voluto più volte sottolineare che l’accordo è stato voluto dai libici, non dagli occidentali. Nessuna ingerenza, almeno a parole. Obama declama messaggi alla nazione nei quali ammette che “siamo in guerra” e promette di sconfiggere l’Isis. Ma sul terreno, poi, combina poco, quasi il minimo sindacale.
Sempre con la prospettiva di non coinvolgere mai le truppe americane in una guerra sul terreno, stivali nel fango. Obama guarda al Pacifico e alle guerre commerciali con i giganti asiatici. E dopo aver ottenuto l’autonomia energetica grazie alle scoperte della scienza e a una oculata politica delle fonti d’energia, gli Stati Uniti con lui si sentono svincolati dalla necessità di esercitare una vera influenza in Medio Oriente. Il Nord Africa interessa poco a Obama.
Il quale è pure convinto che il Califfato non debba essere brutalmente spazzato via, ma soltanto arginato, contenuto, limitato nella sua avanzata.
Peccato che il mondo non funzioni secondo i sogni di un presidente americano idealista e gran comunicatore.
Senza leadership Usa
E peccato che senza la leadership americana anche l’Europa sia destinata a vacillare, traballare, zoppicare, non contare. Incertezze che mettono paura.
Perché invece Putin e i leader dei Paesi più agguerriti sul fronte orientale hanno ben capito che solo il linguaggio della forza rende, in Paesi come la Libia (ma anche Siria, Iraq e Afghanistan). E allora, anche la conferenza sulla Libia promossa dall’Italia con gli Stati Uniti rischia, a dispetto del successo di facciata, di essere soltanto una gran bella parata di volti, una gigantesca illusione, una visionaria "convention" di (finti) ingenui.
Solo il linguaggio delle armi è efficace in Libia come in Medio Oriente. Si tratta per l’Occidente di non perdere la credibilità. Che non sta nella retorica, ma nella forza (armata). Forza che non manca. Il difficile è capire come usarla.