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Lockdown e cellulari hanno spento il cervello dei ragazzi

Sta seduto, quasi avvolto, nella poltrona del nonno. L’avo è stato il pioniere della pediatria, a Bologna lo cacciarono i fascisti perché ebreo; ma poi neanche i comunisti lo hanno voluto. «Beh, forse la scienza fa paura... Quando io mi iscrissi a Medicina e volevo fare come lui, il pediatra al Sant’Orsola, mi dissero: un altro Maurizio Pincherle? No. La ragione? Toglievo il posto ai fascisti che si erano subito riconvertiti in comunisti. Dopo tanto tempo sono riuscito a ottenere che dedichino al primo Maurizio Pincherle, il senior, un busto in uno dei viali del Policlinico. Da quel pregiudizio anti-ebraico un vantaggio lo ho avuto: sono diventato neuropsichiatra infantile». Pincherle, diremo: «junior» che ha conosciuto in vita sua almeno cinque premi Nobel, persone di famiglia. Lo specialista oggi 69 anni, è stato il primo a dare l’allarme sui pericoli del lockdown. «Sapevo che quell’isolamento avrebbe prodotto un disastro sugli adolescenti, avrebbe amplificato il loro solipsismo e li avrebbe resi del tutto dipendenti dal cellulare, dal computer, da quella virtualità che è all’origine di un disagio giovanile preoccupante e di cui ci si occupa poco. Quando vince la cronaca tutti a chiedersi: com’è possibile? Poi silenzio, un silenzio assurdo».

Professore, il disagio psichico giovanile è un effetto collaterale della «reclusione» anti-Covid?

Sì, ma con l’obbligo di andare molto più indietro nel tempo. L’inizio di questo fenomeno terribile data tra il 2012 e il 2013, non averlo circoscritto e contrastato, nonostante che noi neuropsichiatri infantili e molti psicologi che lavorano nelle scuole avessimo dato l’allarme, è stato colpevole. Quando poi siamo arrivati a chiudere i ragazzi in casa per isolarli dal virus, li abbiamo consegnati alla solitudine che è la prima causa del loro terribile malessere. Viviamo tutti noi, anche gli adulti, in una solitudine disperata e disperante.

Lei è anche un clinico: si è «sporcato le mani». Cosa ha osservato?

Che il nostro è un avvertimento inascoltato. Abbiamo assistito dal 2013 a oggi a un aumento di almeno il 30 per cento dei casi gravi di patologia psichica in adolescenti. E la ragione è semplice da spiegare quanto enorme da contrastare. Se lasciamo i ragazzi davanti allo schermo del computer o del telefonino per 6-8 ore al giorno a cominciare dall’età infantile non consentiamo alla parte anteriore del cervello di svilupparsi. Le immagini, la fruizione passiva del virtuale colpiscono la parte posteriore del cervello che è quella primordiale. Se prendiamo il tronco encefalico di un animale e di un uomo sono pressoché uguali. Ciò che ci differenzia è la corteccia anteriore, quei diciotto metri di encefalo che servono a controllare le emozioni, a sviluppare la memoria cognitiva e l’approccio razionale. Sono le aree che servono a inibire o a incanalare l’istintualità animale, quella che risiede nella parte posteriore, verso il ragionamento e il comportamento anche sociale.

Dunque l’aggressività, il bullismo, l’autolesionismo sono diretta conseguenza di questa «atrofia»?

Semplificando molto, sì. Poi c’è il contesto. Se manca la relazione, se l’adulto non opera per ascoltare il disagio o per stimolare la crescita c’è un aggravamento. Uno dei fenomeni più preoccupanti è l’autolesionismo. Soprattutto le ragazzine si tagliano le braccia, le gambe, si procurano un danno fisico. Alla domanda perché lo fai la risposta è quasi sempre la stessa ed è sconcertante: perché almeno sento un dolore vero, perché vedo il sangue e so che sono viva. È il drammatico meccanismo del suicidio: lo fanno per avvertire gli altri che esistono. Si uccidono per illudersi di essere vivi. Prodromico a tutto questo c’è il fenomeno degli hikikomori, nato in Giappone, ma comune a tutte le società sviluppate. Quello dei ragazzi che si isolano dal mondo, hanno un rapporto conflittuale con i genitori da cui comunque dipendono e abitano le loro stanze e usano il computer come unica manifestazione del sé. Possono arrivare a morire di fame.

Le cause possono essere il bullismo, il brutto voto a scuola o sono più profonde?

Quelle sono concause, la motivazione più profonda è che noi adulti non li poniamo più di fronte alla frustrazione. Semplificando, anche in questo caso, si sostiene che non diciamo più agli adolescenti «no». È vero ma bisogna fare di più: bisogna porli di fronte alle barriere, bisogna reintrodurre il concetto trasgressione-sanzione, bisogna educarli all’insuccesso. Ma tutto questo si fa se la parte anteriore del cervello funziona, se non si è atrofizzata per mancanza di stimoli.

E il bullismo che cosa c’entra? Il coltello facile, il delitto?

È lo stesso meccanismo: se non ho più freni inibitori l’istinto e l’aggressività prevalgono. Il branco è il riparo degli adolescenti: una volta era la squadra di pallone della parrocchia con leggi ben chiare e ruoli definiti, oggi è la baby gang. C’è anche un altro elemento: abituati a vivere la finzione uccidono convinti che come nel videogioco poi la vittima si rialza. Ho fatto centinaia di perizie legali mi è capitato più di una volta di constatare l’assoluta incapacità del ragazzo di percepire la gravità del gesto. Poi ci sono i modelli distruttivi.

Per esempio?

I siti porno, gli influencer che hanno l’effetto «pifferaio magico». Ho sentito una giovanissima rispondere offesa alla domanda: vai all’università? Lei ha risposto: ma mi prendete in giro? Per chi mi avete presa? Io valgo di più di quegli accattoni che studiano: faccio vedere una tetta e guadagno cento volte in più. Non mi parlate di libri che se no mi offendo. Qualcuno ha mai avuto voglia di spiegarle che la vita è altro?

Il quadro è drammatico. Che fare?

La prima cosa è mandare gli adulti a scuola di genitorialità. Dobbiamo dare alle donne che fanno figli per i due anni in cui il bambino nasce e cresce uno stipendio pieno. La società deve ringraziare una donna che fa un figlio. I primi mille giorni sono fondamentali per un bambino e il ruolo delle madri è insostituibile.

E l’utero in affitto? Le coppie omogenitoriali?

La madre ha una funzione simbiotica con il neonato. Al padre spetta, per esempio, far sentire il bambino protetto. Per quanto riguarda la maternità surrogata noi sappiamo che togliere il bambino dalla madre appena nato è un trauma fortissimo. Il bambino nei primi giorni di vita vede solo ombre, cerca con la manina il seno della mamma e ne riconosce i profilo. Privarlo di questa cognizione può determinare un uno shock nella delicata età evolutiva. Ma se un distacco deve esserci, meglio che ci sia nei primissimi giorni che successivamente, allora sì che si hanno dei disturbi pesanti. Lo abbiamo visto con i bambini adottati nei Paesi dell’Est, che arrivavano da esperienze durissime negli orfanotrofi. Egualmente serve che la figura paterna eserciti un ruolo di rassicurazione.

Nell’età evolutiva cos’altro occorre fare?

È fondamentale stimolare la zona anteriore dell’encefalo, quella dell’immaginazione e della creatività. È indispensabile che vi sia una sollecitazione al pensiero e non al subire passivamente degli«input» esterni che il ragazzo deve imparare a interpretare e codificare. Bisogna farli leggere questi ragazzi, far loro ascoltare musica, bisogna moderare nell’adolescenza l’uso di computer e cellulari ed eliminarli nell’infanzia. Va rafforzata l’assistenza psicologica nelle scuole. E vanno eliminati gli errori educativi. Nessuno valuta la gravità di far dormire i ragazzi con i genitori. I bambini devono costruirsi da soli, gli adulti devono indicare la strada, ma il percorso è soltanto loro. Rimuovere gli ostacoli è sbagliato.

Le è successo di essere rifiutato dal «paziente»?

Sì e devi essere capace di creare «il gancio». E lo devi cercare anche con i genitori. Sono stato spesso aggredito, ma mi so difendere. Penso a tante colleghe che invece vengono lasciate indifese. Fare il medico oggi è una professione a rischio. Perché sono saltati anche i principi di autorità e di rispetto che sono basilari per fondare l’educazione. Per me è un dolore vedere i reparti di psichiatria infantile affollati. Immaginare che bastino i farmaci è pura illusione. È la nostra contemporaneità a essere patologica.

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