Italia
September 28 2024
E’ opinione diffusa che la svolta decisiva per la conoscenza al grande pubblico della Basilicata -meglio ancora meglio “Lucania” per stimolare i puristi della classicità- fosse arrivata grazie ad un romanzoautobiografico: Carlo Levi (1902-1975), scrittore, pittore, intellettuale e partigiano torinese, lo “partorisce” tra il 1943 ed il 1944 a Firenze e lo pubblica per Einaudi nel 1945: dieci anni prima, infatti, tra il 1935 ed il 1936, era stato condannato al confino proprio nelle “desolate terre di Lucania” (come scriverà nella sua opera più famosa…) a causa della sua attività antifascista, letteralmente deportato nello sconosciutissimo borgo di Aliano, nel materano, sino a calarsi in prima persona nella realtà che stava descrivendo. Dirà Levi nella sua prefazione che “come in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Il libro tuttavia non è un diario; fu scritto molti anni dopo l’esperienza diretta da cui trasse origine, quando le impressioni reali non avevano più la prosastica urgenza del documento”. Evidenzierà lo scrittore torinese, ben più avvezzo alle Alpi che ricamavano la sua splendida Torino, che “(…) Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e le foreste (di Lucania, nda) (…)”.
«Ecco il mio inizio. Ho scoperto Cristo si è fermato a Eboli che imparai praticamente a memoria e da quel momento non mi sono più fermato». Giuseppe Lupo, lucano di Atella, dove la Basilicata si incastra tra la Campania ad occidente e la Puglia ad oriente: ordinario di Letteratura italiana contemporanea alla Cattolica di Milano e pluripremiato autore per Marsilio, Lupo ci guida in un irreale viaggio alla scoperta di un paesaggio da non molto entrato nei taccuini di viaggio dei moderni viaggiatori. E lo fa utilizzando una tecnica narrativa del tutto rivoluzionaria, basata sull’analisi “geografica” frutto della sua immaginazione, come ben sanno i suoi lettori che da oltre un ventennio seguono le vicissitudini dei personaggi che sembrano danzare su un palcoscenico a metà tra realtà irreale e costruzione fantastica.
Bella quest’idea di una “topografia immaginaria”!
«Ho sempre avuto un debole per la narrativa di William Faulkner (scrittore americano, premio Nobel per la letteratura nel 1949, noto per stile “fantastico” della sua narrativa, nda) che aveva ambientato tutti i suoi romanzi nella contea immaginaria di Yoknapatawpha: un misterioso pezzo di terra nello Stato del Mississippi, che coincideva con il luogo dove lui era nato. Sull'esempio di Faulkner, mi sono costruito anch'io una “geografia immaginaria”, dove ho deciso di collocare le mie storie, e me la sono addirittura disegnata quando stava per uscire il mio secondo romanzo, “Ballo ad Agropinto” (Marsilio, 2004). Non ha un nome questa terra, eppure i contorni sono reali».
Molti dei paesi richiamati sono finiti nei suoi libri!
«Alcuni addirittura nei titoli (Celenne dentro L'americano di Celenne, Agropinto in Ballo ad Agropinto, Palmira dentro L'ultima sposa di Palmira), altri invece solo all'interno (Vitalba in Viaggiatori di nuvole, Caldbanae in L'albero di stanze). E non finisce qua. Ci sono anche una serie di masserie sparse (Spineta, Dragoni, Colonnella, Maldirupo, Camasta, Bruciapelo, Boccadilupo), più qualche frazione (San Martino, Camarda, Serra San Vito, Piana di Cartofiche), tre santuari (Madonna del Laudato, al centro, Madonna del Carmine, nel bosco della Civita, e Madonna di Pierno, nel bosco della Bufita, entrambi ai margini meridionali, com'è indicato da una piccola bussola), un mulino ad acqua, una ferrovia con il casello di Boschito e infine due torrenti, il Levata e il Pidocchio, che confluiscono nella fiumara di Vitalba».
Siamo disorientati! Sono molto più che paesi immaginari…
«Sono la proiezione del luogo dove sono nato, Atella, che non nomino mai nelle mie storie perché non voglio che esse siano considerate una copia della realtà, ma la loro trasfigurazione. A me è sempre piaciuta una certa letteratura visionaria, antropologica, ma capace di elevarsi oltre la cronaca, diciamo una letteratura epica. Poi è chiaro che dentro ciascuno di questi paesi si possono riconoscere i segni di quello a cui appartengo dalla nascita. Questo gioco è stato un pò come una forma di sopravvivenza».
In che senso “sopravvivenza”?
«Andato via dalla Lucania a diciotto anni, ero talmente ossessionato dal legame con la mia terra da desiderare di non dimenticarla mai e questo esercizio di non dimenticarla mi ha portato, negli inverni milanesi di quando ero studente, a tenerla sempre in mente. Più ci pensavo, più vedevo che i luoghi sfumavano dentro di me, perdevano l'aspetto di ricordi e diventavano sogni. Le strade si dilatavano, le stanze dov'era rimasta la mia memoria prendevano misure sconsiderate, i volti e le voci delle persone che avevo salutato si trasformavano in qualcosa che obbediva alle leggi della fantasia più che a quelle della memoria».
Ah, già, lo stile “fantastico” di Faulkner!Lei, in ogni caso, è rimasto legatissimo alla sua terra.
«Alla fine ogni cosa assunse la forma di una terra che non c'era più, una specie di non-terra che io solo riuscivo ad abitare. Era un azzardo dire che le storie raccontate nei miei libri fossero ambientate in Lucania: esse piuttosto vivevano in un luogo che le mie paure o le mie speranze avevano modificato. Io ci tornavo tutte le volte in cui mi sentivo solo e mi trovavo sempre a mio agio, mi sentivo al sicuro dalle mie incertezze. Per questo so che le storie che ho raccontato sono nate dalla memoria che è diventata utopia».
Crediamo sia giusto che ci confessi la ragione di questa tecnica narrativa…
«Credo che dipenda dalla conformazione fisica della stessa Lucania, che è una terra piccola ma distante. Sembrerebbe una contraddizione, eppure il tempo che normalmente si impiega per andare da nord a sud, cioè dalla zona del Vulture al Pollino, a causa delle strade tortuose, delle ferrovie non ammodernate, non è paragonabile a nessun parametro del mondo occidentale. È come se il tempo si smarrisse. Oltretutto in Lucania accade che perfino i navigatori satellitari perdano l’orientamento, si inceppino e lascino gli automobilisti in mezzo al guado».
Dobbiamo crederle?
«Non di rado accade anche di finire in un incrocio e di trovarsi al cospetto di due cartelli stradali che indicano la stessa località ma una nella direzione contraria all'altra. Che si fa quando si arriva al bivio e le frecce indicano Potenza voltando sia a destra che a sinistra? Sono convinto che la Lucania sia un “labirinto geografico” e in nome di questo labirinto è possibile, anzi è necessario, manomettere i nomi topografici. Forse, immaginando un nome che non c'è, si riesce a trovare per davvero quello che esiste».
Problemi di orientamento topografico a parte, la Lucania di Giuseppe Lupo è più viva che mai. Anche se narrata, da quarant’anni, da una prospettiva milanese…
«La Basilicata -le mie origini, il mio ieri- rappresenta la condizione originaria e appenninica, una geografia che significa memoria, identità, inflessione verbale, un momento in cui tutto vive nell’attesa del domani. Milano, il mio oggi, è invece il racconto dell’impatto con la modernità, la sfida dell’uomo con il mondo, il sogno di una civiltà illuminata dalla forza della ragione e dalle fabbriche. Il padre del protagonista dei miei racconti parla sempre di un illuminismo lombardo, che vuol dire democrazia, efficienza, organizzazione, progetto. La Basilicata è il labirinto dell’Appennino, Milano è la geometria razionale della pianura. Nell’oscillare tra questi due poli geografici e morali mi trovo io».
Coordinate geografiche ma anche autobiografia allo stato puro. Così lei forma il profilo culturale e la coscienza critica dei suoi studenti…
«In "Breve storia del mio silenzio" (Marsilio 2019), ho guidato il lettore ripercorrendo le tappe della mia formazione, partendo proprio dal periodo di “mutismo” causato, a quattro anni, dalla nascita di mia sorella. Solo tempo dopo avrei preso a parlare, rimanendo ancora all’oscuro, ad esempio, dei grandi romanzi, fino a quando non provai il trauma del terremoto del 23 novembre del 1980 che cambiò le nostre vite per sempre. E’ come se il lettore sentisse la terra tremare sotto i suoi piedi, e il padre del protagonista affermare, candidamente, che “ora che siamo salvi si può raccontare”. Cioè la storia del mio silenzio».
L’autobiografia prende il sopravvento sul racconto fantastico.
«Perché fino a quella drammatica sera del 1980, cioè fino ai miei diciassette anni, leggevo soltanto per esigenze scolastiche, obbligato dai professori. La prospettiva cambiò radicalmente durante l’inverno che seguì al terremoto (che ricordo particolarmente freddo e nevoso nella nostra regione), vuoi perché non avevo altro da fare, vuoi per la paura di morire: fui praticamente costretto dagli eventi a prendere in mano i libri che avevo a casa e mi appassionai all’idea che solo immergendomi nelle storie avrei superato e, forse, dimenticato le mie paure».
Insomma: un drammatico episodio incise sulla sua vita e le aprì le porte del “mondo fantastico”!
«Direi, molto più semplicemente, che in quel momento scoprii che leggere è un modo per moltiplicare la vita e dimenticare la minaccia della morte. E capii anche che non avrei potuto più vivere lontano dai libri. Tanto da studente quanto da docente…».
Dalla misteriosa e quasi sconosciuta Lucania alla progredita Milano. Il passo non sarà stato certo facile…
«Nonostante provenissi da un migliaio di chilometri di distanza, Milano, la “città degli illuministi”, esercitò subito un fascino irresistibile su di me. La prima volta, insieme ai miei, la visitai per tastare il terreno, poi ci feci ritorno alla ricerca di un alloggio: mi iscrissi a lettere moderne alla Cattolica. Molte di quelle scene narrative le avrei riproposte in GliAnni del nostro incanto (Marsilio 2017: Premio Viareggio, Premio Corrado Alvaro, Premio Acri-Padula, nda), il racconto tra gli anni Sessanta, la mia generazione e il presente, sono sempre imbevuti di narrazione autobiografica: il gusto, i suoni, gli odori della mia infanzia sono legami si troppo potenti da poter recidere».
A proposito del rapporto Lucania-Milano…
«Il legame è, ormai, indissolubile, anche a livello di geografia narrativa. Di “Ballo ad Agropinto”, uscito nel 2004 per Marsilio e ambientato sicuramente in questo luogo del Vulture-Melfese, la parte più a nord della mia Lucania, quest’anno è uscita nei tascabili Feltrinelli un’edizione ampliata che comprende una seconda parte ambientata proprio a Milano. Che dire: il mio passato mi segue pedissequamente».
Lo confessi: ha sempre sognato di “fare” lo scrittore!
«Come negarlo! Nell’ultima parte de Gli anni del nostro incanto racconto il mio personale itinerario verso la scrittura e il mondo dell’editoria: assolutamente non facile, nel quale ho messo a dura prova la mia testardaggine, fino all’incontro con prima con lo scrittore e critico letterario Raffaele Crovi (già Mondadori e Rusconi e, nel 1984, fondatore di Camunia), e poi con Cesare De Michelis, ovvero con l’editore “Marsilio”, scomparso nell’agosto del 2018. In quel libro ho, in un certo senso, proseguito il mio personale viaggio verso la modernità del Novecento, di cui tra l’altro mi occupo come docente, anche attraverso gli “oggetti” del progresso economico, sociale e culturale».
Modernità che apparentemente sembrerebbe divaricare ancor di più la distanza con la sua Lucania. E invece…
«La distanza, non solo “geografica” è evidente, certo: ma, paradossalmente, mi ha permesso di conoscere ancor meglio la mia terra partendo da Carlo Levi e Rocco Scotellaro, insostituibili testimoni del mondo contadino, ma anche da Leonardo Sinisgalli e dalla sua prospettiva di una nuova chiave di lettura del Novecento. Anche rischiando di smarrirsi nel “labirinto geografico” della Lucania di paesi immaginari…».