foto di Marco Scarpa
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La figlia di Riina: vi sembro donna di mafia?

L'intervista di Bruno Vespa al figlio del boss Totò Riina nella trasmissione Porta a Porta ha suscitato reazioni indignate e polemiche. Chi lo difende, sostiene, tra l'altro, che conoscere il fenomeno mafia sia importante, per poterlo combattere. Due anni fa il nostro settimanale intervistò Lucia, ultimogenita di Totò Riina. Ecco il testo di quell'intervista.

di Siana Vanella

L'appuntamento è alle 12, all’entrata del paese. Ogni chilometro rappresenta metri di riflessioni e punti interrogativi. Come sarà dal vivo Lucia Riina? In fondo la sua persona ha sempre vissuto mediaticamente all’ombra del padre Salvatore, di mamma Antonietta e dei fratelli Salvo, Maria Concetta e Gianni. Il cartello «Corleone» indica che non è più tempo di pensare. «Benvenuti nella mia città, vista l’ora che ne dite di fare un salto in pescheria? Qui si trova dell’ottimo pesce». Così esordisce la più piccola di casa Riina in jeans e t-shirt nera. Da lì a poco, eccoci nella cucina decorata con maioliche blu e bianche e due chili di polipi da preparare. Mentre in pentola il pesce cuoce insieme con il pomodoro fresco fatto da mamma Ninetta, Lucia chiarisce la provenienza dei suoi occhi azzurri. «Il colore è tipico dei Riina» spiega con in mano un mestolo di legno «quelli di mio padre sono cangianti tra il marrone e il verde, anche se il taglio appartiene alla famiglia Bagarella. Da piccola ero molto magra e mamma a colazione mi dava le vitamine alla ciliegia. Ormai, da quando vivo in campagna, sono le uova della mia fattoria a darmi energia». E in realtà, ad animare le giornate di Lucia e del marito Vincenzo, alle prese con il lavoro a singhiozzo, ci pensano cani, gatti, oche e galline.

Sul suo sito si legge: «Sin da quando ero bambina ho avuto la passione per il disegno, ricordo che mamma e papà cercavano di procurarmi sempre album e matite ovunque eravamo. Io ero piccola e non capivo, però mi entusiasmava l’idea che a ogni nuova residenza c’erano ad attendermi matite e album nuovi».

Che ricordo ha della sua infanzia?

Ho un ricordo di gioia e serenità. Si respirava amore puro in casa, sembrava di vivere dentro a una fiaba: mamma mi accudiva, papà mi adorava e mia sorella Mari per farmi addormentare mi raccontava le favole accarezzandomi i capelli. Mio fratello Gianni mi metteva sulle sue gambe chiamandomi “pesciolino”, Salvo (col quale la differenza di età è di appena tre anni, ndr) era il compagno di giochi. Avevamo un cane e un gatto, per questo adoro gli animali.

Si respirava profumo di arte?

Mamma ha conseguito il diploma magistrale, quindi ci parlava spesso di storia dell’arte e di letteratura, papà era un appassionato di libri, e trascorreva le sue serate a leggere volumi sulla storia della Sicilia. Credo di avere, comunque, ereditato l’amore per la pittura dallo zio Leoluca (Bagarella, ndr), il fratello di mia madre. In casa custodisco gelosamente alcuni suoi dipinti, regali delle zie per il mio matrimonio: sapevano che anche dal carcere lo zio avrebbe apprezzato il gesto.

Da piccola si dilettava a disegnare pesci e farfalle, adesso questi soggetti sono diventati i protagonisti delle sue tavole.

Rappresentano un po’ il mio carattere. Il pesce con la sua serenità e i suoi colori cangianti, la farfalla con la sua libertà e delicatezza. Da bambina li disegnavo per esprimere i miei stati d’animo, adesso per rievocare il mio passato e comunicare il fatto di essere innamorata. Se dovessi rappresentare la mia esistenza attraverso i colori utilizzerei il rosa e il celeste, ma anche il giallo, il rosso e l’arancio perché mi ritengo una persona ottimista. La vita va affrontata con coraggio e anche quando si presentano situazioni difficili bisogna sempre andare avanti.

C’è qualcosa che le manca per completare il quadro della sua serenità?

La mia è stata sicuramente una vita articolata e piena di difficoltà. È traumatico per una bambina di 12 anni vedersi strappare, dall’oggi al domani, la persona che più adora senza conoscerne i motivi e senza potergli dare nemmeno un ultimo bacio. I mesi dopo l’arresto di papà sono stati durissimi: l’arrivo a Corleone cercando di ambientarsi in una nuova realtà, frequentare la scuola (eravamo infatti abituati alla mamma che tutti i giorni ci riuniva a un tavolo impartendoci lezioni personalizzate), l’impatto con la società. A questo aggiuntete le visite in carcere. Non riesco ancora a dimenticare la prima, dopo il periodo di isolamento di papà a Rebibbia: fu atroce, anzi peggio. Inizialmente credo che la struttura non fosse organizzata ad accogliere papà, e nemmeno noi, durante i colloqui. Ricordo che fecero entrare me, i miei fratelli e la mamma in una stanza piena di sedie e con un paravento dotato di fori. Mio padre era a pochi centimetri da noi, l’avrei potuto abbracciare in un istante, ma le guardie erano tutte attorno a lui e ci imploravano di non alzarci. Abbiamo passato tutto il tempo a piangere. Certe atrocità ai bambini non si fanno. Per chi non mi conosce e si basa solo sulle polemiche sollevate dai media negli anni, Lucia Riina non è quella bambina che si è risvegliata violentemente da una fiaba e non è nemmeno la donna che oggi fa fatica, come tutti i giovani, a trovare un’occupazione complice la crisi economica e un cognome forse un po’ ingombrante. Per me l’arte diventa un modo per rappresentare il mio mondo e far conoscere agli altri realmente chi sono.

Nel suo sito afferma di non aver potuto frequentare il liceo artistico di Palermo «perché a quell’età e in quella situazione non potevo andare a studiare così lontano da casa». C’è un artista da cui ha tratto spunti creativi?

L’ispirazione nasce dalla vita di tutti i giorni, dal luogo in cui vivo e dal fatto che sto bene con mio marito. Negli ultimi mesi sto studiando le correnti dell’astrattismo basate sugli stati d’animo espressi attraverso i colori, le pennellate e le forme indefinite. Inoltre, sono attratta da Jackson Pollock e dalla tecnica del dripping: mi piacerebbe reinterpretarla personalizzandola.

Oltre alla pittura avrebbe voluto coltivare altre passioni?

Sicuramente la danza. Da piccola guardavo tutti i film del genere, mi mettevo davanti allo specchio e ballavo o improvvisavo coreografie davanti ai miei genitori. Ancora oggi rimango incantata dalla danza classica e se un giorno dovessi avere una bimba mi piacerebbe vederla in tutù e calzamaglia.

Che cosa pensa di avere ereditato dai suoi genitori?

Da papà, sicuramente, la gioia di vivere e l’ottimismo. Il fatto di andare sempre avanti senza arrendersi. Con lui c’è sempre stato un feeling speciale, complice anche il fatto di essere la più piccola in famiglia. Nelle lettere che mi spedisce mi chiama ancora «Lucietta di papà» nonostante i miei 33 anni suonati. Anche dal carcere, in questi anni, ha cercato spesso di ammorbidire mamma per le classiche richieste che una figlia adolescente fa ai propri genitori. Mi riferisco all’orario di rientro il sabato sera o al permesso per andare al mare. Quando conobbi Vincenzo, mio fratello Salvo inizialmente era un po’ geloso così ne parlai durante un colloquio a papà, che rispose: «Se la mia Lucietta è contenta, fatele fare le sue scelte». Da mamma credo
di aver ereditato l’amore per gli affetti e per la conoscenza che mi ha spronato sempre a interagire con nuove persone.

In questi anni sua madre ha avuto un ruolo importante in famiglia. È stata moglie, madre e dal 1993 ha dovuto pure sopperire all’assenza fisica di suo padre. Adesso i ruoli si sono un po’ invertiti: è un po’ Lucia a dover sostenere Antonietta?

Crescendo, un figlio diventa un punto di forza per un genitore. Ci sono momenti in cui fare i conti con la mancanza di papà per mia madre diventa difficile. Il loro è stato un amore da romanzo: lei ha lasciato tutto per dedicarsi anima e corpo a noi figli e al grande amore della sua vita. Tutte le volte che è giù perché pensa a papà o a Gianni che è in carcere le dico: «Mamma, stai tranquilla, io sarò sempre accanto a te». È il minimo che puoi fare per chi ti dà la vita.

Lei aveva deciso di devolvere a Save the children il 5 per cento del ricavato della vendita dei suoi dipinti, ma la sua scelta ha causato polemiche.

Da anni seguivo le iniziative di questa associazione, così visitando la loro pagina ufficiale su internet venni a conoscenza del fatto che chiunque, munito di sito, poteva inserire il banner di Save the children per contribuire alle iniziative a favore dell’infanzia. Così, venduti i primi quadri, ho inviato una parte del compenso con un bollettino postale, cui seguì una lettera di ringraziamento intestata a me da parte dell’associazione con tanto di tessera di socio e una esortazione a continuare a contribuire. Io ero felicissima di poter aiutare bambini sfortunati e tutto mi sarei aspettata tranne che, da lì a poco, Save the children potesse reagire in quel modo. Ci sono rimasta malissimo, ho tolto il banner spiegando sul sito come sono andate le cose perché voglio essere trasparente con chi mi segue. Il mio è un lavoro onesto e da sempre il mondo dell’arte è legato alla beneficenza. Adesso sono alla ricerca di una nuova associazione da sostenere, perché mi sento realizzata quando faccio del bene.

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