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February 05 2018
I proclami moralisti, i più prosaici rimborsi, il populismo e le retromarce. Il curriculum zoppicante, in continuo restyling. I militanti di ieri e la squadra, epurata e corretta, di oggi.
Solitamente, Angelo Zanfardino veste casual. È un insegnante di frontiera, impegnato nel sociale: un duro e puro. Tuttavia, aveva deciso di investire su qualche abito più classico.
S’era spinto fino ai confini di Pomigliano d’Arco, negli stessi centri commerciali dove si serve Luigi «Giggino» Di Maio. Per evitare di sembrare uno scapestrato, Angelo voleva indossare la divisa d’ordinanza imposta dal nuovo corso: giacche, camicie, cravatte da agente immobiliare. Ma il leader pentastellato l’ha pietrificato, cancellando il suo nome dalla lista dei candidati al Senato.
I grillini d’antan come Zanfardino vanno ormai nascosti sotto il tappeto: malvestiti, ideologici e incontrollabili. Il Movimento è saldamente in mano a Di Maio e ai suoi accoliti: furbi, impuri, devoti al capo. Una falange compatta che, in nome della realpolitik,allearsi con chi fino a pochi mesi fa considerava diavoli: il vendicativo Massimo D’Alema, il rottamato Pier Luigi Bersani e il populista Matteo Salvini.
Da barricadero a consociativo. Da rivoluzionario a uomo di potere. Da rigoroso pauperista a scafato onorevole. La trasformazione di Luigi Di Maio s’è ormai compiuta. E ha coinvolto ogni piano: il partito, le idee, l’uso del denaro pubblico.
Una metaformosi eterodiretta e inesorabile. S’è palesata definitivamente il 29 gennaio 2018, quando il leader ha guidato una convention all’americana. Al posto delle vecchie piazze s’è notata una borghesissima sala, quella del Tempio di Adriano, abituale sede di eventi organizzati da palazzinari, lobbisti e partitoni. E ad ascoltarlo c’era una pletora di vip dell’ultima ora: l’ora delle candidature al parlamento. Per i collegi uninominali, Di Maio ha selezionato personalmente il giornalista Gianluigi Paragone, già grande sostenitore della Lega, e l’ex direttore di SkyTg24Emilio Carelli, uomo di salotti contigui alla Prima Repubblica, fino al comandante Gregorio De Falco, segnalatosi per aver rimbrottato Francesco Schettino la notte della tragedia all’Isola del Giglio.
Insomma, addio all’«uno vale uno» delle origini. I già grillini sono diventati il partito personale di Di Maio e del suo unico e principale sponsor, quel Davide Casaleggio padrone delle piattaforme web: tolda che manovra le mosse politiche del candidato premier. Certo, tra i pentastellati qualche resistenza alla deriva oligarchica ancora si registra. Ma sono voci sempre più flebili. E nessuno tra i «dimaini» pensa che tra appena un lustro, a soli 36 anni, Giggino si ritirerà dal proscenio. Derogando al fondante e mitologico divieto del doppio mandato. Sarebbe solo l’ultima incoerenza. Le giravolte politiche, linguistiche e relazionali sono l’approdo. I prodromi dei testacoda si intravedono già dagli esordi. Nel 2010, Di Maio si propone come consigliere comunale nella sua Pomigliano. Il bottino è modesto: 59 voti. Niente consiglio comunale. Tre anni dopo, Giggino però fa il colpaccio.
Sul sito di Grillo raccoglie 189 preferenze. Diventa onorevole. Poi, il triplo salto carpiato fino alla vicepresidenza della Camera. Fu lui stesso a raccontare l’elezione: «Mi alzai e andai a parlare agli altri. Dissi semplicemente: “Non chiamerò mai più i deputati onorevoli”. Venni eletto subito». I cinque anni seguenti l’hanno trasformato da barricadero a uomo del sistema. Grazie anche a piccole furberie, che oggi lo rendono assimilabile, nelle idee e nell’azione, a quegli onorevoli vituperati per anni.
Il primo piccolo segnale, nel silenzio generale, si coglie il 31 maggio 2013. Quando il «cittadino» Di Maio presenta alla Camera la sua situazione patrimoniale. Dimenticando però di comunicare il possesso del 50 per cento di Ardima: società di costruzioni creata il 30 giugno 2012 assieme alla sorella, Rosalba. Quasi a voler giustificare la negligenza, lo stesso Di Maio, a febbraio 2015, spiega che Ardima nasce dalla fusione aziendale della vecchia ditta di famiglia. Una partecipazione «che tutti i cittadini possono apprendere dalla mia dichiarazione patrimoniale del 2014». Mentre prima, non era stata menzionata «perché non operante». Vero, ma ininfluente.
La quota andava comunque dichiarata. Anche perché il leader grillino all’epoca aveva un ruolo attivo nella società. Lo conferma la banca dati del registro delle imprese, consultata da Panorama. Il 27 giugno 2013, a tre mesi dall’elezione a deputato e un mese dopo la sua lacunosa dichiarazione patrimoniale, Di Maio assieme alla sorella partecipa all’assemblea ordinaria di Ardima. Viene addirittura nominato segretario della seduta in cui è approvato il bilancio 2012, chiuso «con un risultato negativo di 1.376 euro». Nota a margine: qualche anno più tardi, l’allora aspirante sindaco di Milano, Giuseppe Sala, sarà crocifisso dai pentastellati per analoghe omissioni mentre era ad di Expo.
Transeat. A un detentore della pubblica morale tutto è concesso. Ma pure nei suoi cinque anni di irresistibile ascesa in Parlamento, Giggino, forte dell’aura da castigamatti, non s’è certo distinto per irreprensibilità. Il candidato premier dei Cinque stelle ha partecipato solo al 30,73 per cento delle votazioni. La seconda percentuale più bassa del Movimento. Il suo contendente Alessandro Di Battista, per esempio, pur non brillando per stakanovismo, ha una partecipazione quasi doppia: 57 per cento.
Di Maio vanta comunque quasi l’83 per cento complessivo di presenze. Cifra ragguardevole, raggiunta però grazie all’uso smodato di missioni: 52 per cento. L’escamotage, tra deputati e senatori, è arcinoto. Basta un fax all’Ufficio di Presidenza per essere impegnati fuori dal Parlamento. A scuola si diceva: assente giustificato. Nessuno controlla. E si evitano sostanziose decurtazione di stipendio. Si dirà: percentuali di voto così modeste saranno giustificate dai pressanti impegni di Di Maio come vicepresidente della Camera.
Tesi smontata dal confronto con i colleghi omologhi.
Il democratico Roberto Giachetti ha partecipato all’84 per cento delle votazioni, con una percentuale risibile di missioni. Anche Marina Sereni, sempre del Pd, e Simone Baldelli, di Forza Italia, vantano dati superiori. Insomma, Di Maio è stato il vicepresidente di Montecitorio meno presente. E l’incoronazione ad aspirante premier è di appena un mese fa: il nuovo incarico non può quindi giustificare la sua lontananza dall’emiciclo.
Poi c’è l’annosa questione del vil denaro: storico cavallo di battaglia dei Cinque stelle. Le regole del Movimento sono arcinote. Gli eletti in parlamento non devono guadagnare oltre tremila euro al mese e dovrebbero rinunciare «a ogni benefit». Il resto viene versato in un fondo destinato alle piccole e medie imprese italiane. Meritorio, certo.
Il diavolo si nasconde però nei dettagli. Anzi, nei rimborsi. Panorama ha spulciato i resoconti mensili delle spese di Di Maio, consultabili sul sito tirendiconto.it. E ha scoperto che il leader pentastellato spende molto di più di quanto auspicato in principio dai fondatori del Movimento, Beppe Grillo e Roberto Casaleggio.
Da marzo 2013, mese dell’entrata in Parlamento del futuro leader, a settembre 2017, ultimo mese consultabile, Di Maio ha speso 402 mila euro di rimborsi: una media di 7.310 euro al mese. Gran parte di questi soldi erogati dalla Camera sono stati destinati ad «attività ed eventi sul territorio»: ben 191 mila euro.
Quasi tre volte quanto speso dall’attivissimo Roberto Fico, suo storico contendente. Entrando ancora nel dettaglio: di questi 191 mila euro, poco più di 50 mila euro euro sono stati impiegati per le «missioni non ufficiali» e 73.985 euro «in spese logistiche per la partecipazione agli eventi». Non esattamente cifre da campione di morigeratezza, come Di Maio cerca di apparire.
Doppiopesista, cerchiobottista, ondivago. Il copione, del resto, adesso impone machiavellismo, per quanto improvvisato. Ultimo esempio, la fragorosa autosmentita su alcune Ong che soccorrono i migranti, definite «taxi del Mediterraneo»: retromarcia stigmatizzata da un altro campione di moralità come Roberto Saviano. Con i giornalisti, una volta reputati cancro del sistema, è giunta invece la stagione dei reciproci salamelecchi.
Il caso più clamoroso è Porta a Porta: Bruno Vespa fino a poco tempo fa non aveva per i grillini i requisiti per ospitare politici in campagna elettorale. Acqua passata. Adesso Di Maio è suo cortese ospite. Quanto a indagati, arrestati e condannati, è feroce con gli avversari, ma ipergarantista con i tanti sindaci pentastellati coinvolti in inchieste: da Virginia Raggi (Roma) a Chiara Appendino (Torino), da Filippo Nogarin (Livorno) a Patrizio Cinque (Bagheria).
L’ambiguità, appunto. Come quella manifestata con Stati Uniti ed Europa. Di Maio è un entusiasta fan di Vladimir Putin, ma cerca anche di accreditarsi con gli Usa. Ancora: prima denuncia l’Ue che affama gli italiani e poi cerca di convincere le cancellerie europee a dargli fiducia. Di più: il gruppo di europarlamentari M5s ogni due settimane gli invia un report. Ma le relazioni sono spesso contraddittorie. Forse è pure per questo che, ad esempio, il leader alterna sentimenti contrastanti verso l’euro. Da contrario a favorevole. E viceversa.
A Bruxelles il «dimaino» di punta è l’eurodeputato Ignazio Corrao, noto alle cronache per aver assunto 11 portaborse anche, ipse dixit, «per risolvere il problema della disoccupazione». Ma in fondo, Corrao è sulla stessa linea del capo e del movimento stesso, che ha invaso Montecitorio e Palazzo Madama di assistenti, spesso privi di qualifiche ma forti di voti e parentele. Gente che costa ai contribuenti italiani svariati milioni di euro. Per intenderci: alla Camera, nell’ultimo anno, solo le spese destinate alla comunicazione sono aumentate del 375 per cento.
L’immagine del leader è stata, un dettaglio dopo l’altro, revisionata e adeguata al momento. Il maquillage comunicativo è passato, banalmente, pure dall’aggiornamento del curriculum. Nel 2013, sul sito di Grillo, da fresco candidato in parlamento Di Maio riferiva delle sue esperienze lavorative che tanta ilarità hanno poi suscitato: webmaster, steward allo stadio San Paolo di Napoli e «breve esperienza come assistente regista». Una serie di lavoretti che gli hanno ingenerosamente fruttato uno sfottente «Giggino webmaster»: soprannome coniato dal perfido governatore campano, Vincenzo De Luca. Di Maio ha rintuzzato: «Offende migliaia di persone che stanno sudando per fare questo lavoro». Ma il nuovo cv da aspirante premier è stato comunque epurato dai lavoretti giovanili.
Al di là della comunicazione, per tentare di darsi una struttura convincente, Giggino ha coinvolto il deputato Riccardo Fraccaro, diventato raccordo con manager, imprenditori e partecipate. Soprattutto, Di Maio ha ingaggiato come responsabile delle relazioni istituzionali Vincenzo Spadafora, ora candidato dei 5 Stelle nel collegio di Casoria. Un uomo abile, già presidente di Unicef Italia e Garante per l’infanzia. Ha aperto a Di Maio le porte di ambasciate, lobby e parlamenti. A Spadafora si devono i viaggi in Israele, Regno Unito e Stati Uniti, oltre che il meeting all’Ash Center di Harvard. L’ennesima, tormentata, metamorfosi. Il leader dei Cinque stelle tenta all’estero di accreditarsi con ambasciatori, lobbisti e uomini delle istituzioni. Ma in patria lo attende il tradizionale militante grillino, che poco gradisce le virate ideologiche promesse in terra straniera: stabilità, moderazione e globalizzazione.
Così, un passo dopo l’altro, «Giggino webmaster» è diventato l’arrembante trentunenne che, per vincere le elezioni, ha mascherato i Cinque stelle. La rivoluzione deve sembrare solo uno sbiadito ricordo. Come dice Frank Underwood in House of Cards: «Ho cambiato i parametri delle mie promesse». Questa è la politica, bellezza. E anche il Movimento non può farci niente.
(Questo articolo è uscito sul numero del settimanale Panorama in edicola l'1 febbraio 2018, con il titolo: "Se questo è un leader")