Lifestyle
March 21 2014
Oggi siede in prima fila alla New York Fashion Week, accanto ad Anna Wintour,che l’ha messa al primo posto tra le "10 rising style stars of 2014" di Vogue America, e alle voci di una sua imminente cover risponde tutta risolini. E poi, certo, vive a Brooklyn, come si addice agli hipster talentuosi quali la nuova amica Lena Dunham, va a pranzo da Oprah Winfrey e twitta un selfie con Miuccia Prada, che l’ha voluta testimonial di Miu Miu. O meglio, lo fa twittare all’assistente, perché al contrario di Lena, Oprah e un sacco di altre dive che twittano da sole, a gestire il profilo Twitter di Lupita, al secolo Guadalupe Nyong’o, è il suo staff.
Come Obama, e sarà un caso che col presidente Usa, Lupita ha in comune la tribù keniota del papà (i Luo). Nessuno, insomma, crederebbe che qualche mese fa la 31enne Oscar come migliore attrice non protagonista per 12 anni schiavo, il suo primo ruolo cinematografico, per il quale è stata scelta tra mille aspiranti, prima ancora di finire la scuola fosse una perfetta sconosciuta.
Ma se sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles sembrava una marziana, con quel discorso umile e di classe, pieno di principi, tra un "non dimentico un istante che così tanta gioia nella mia vita sia dovuta alle sofferenze di qualcun altro" e un "non importa da dove vieni, tutti i sogni sono validi", che il New Yorker ha subito premiato come "il migliore della serata senza dubbio"; se un mese e mezzo prima, ai Golden Globe, mentre rubava la scena alle altre attrici con un abito arancio di Ralph Lauren difficilissimo da portare, si atteggiava contemporaneamente a imbucata, dicendo a tutti che doveva assolutamente farsi la foto con DiCaprio, e Jared Leto e un sacco di altri "beniamini", tutto in lei è strategico e studiato. Non a caso, i giornalisti che la incontrano scrivono che "è molto più star di quanto ci si aspetti", sottolineando le entrate trionfali e i gesti aristocratici. Tanto star che a febbraio, affinché il suo nome non fosse storpiato sul palco degli Oscar, aveva postato, su Instagram, un tutorial per insegnare a pronunciarlo.
La stessa assertività mostrata poi al momento del "best selfie ever", quello con cui Ellen DeGeneres ha battuto ogni record di retweet: Lupita e il fratello Peter sono gli unici che corrono a posare per la foto prima ancora che la presentatrice li coinvolga. Una determinazione e sicurezza in sé che può dare solo una certa educazione.
Seconda di sei figli, Lupita è nata in Messico, dove suo padre, attivista keniota costretto all’esilio dal regime autocratico di Daniel Arap Moi, insegnava scienze politiche. Un anno dopo, con Moi messo alle strette dal mondo occidentale, la famiglia torna a casa a Nairobi, il padre viene eletto in parlamento e diventa anche ministro della Sanità (oggi è senatore). Ma non è l’unico famoso di famiglia: la cugina di Lupita, Isis Nyong’o, già manager di Google e cofondatrice di Mtv Africa, è una delle donne più potenti del continente secondo la rivista Forbes.
Lupita ha 8 anni quando vede per la prima volta Il colore viola, il film di Steven Spielberg sul razzismo, e decide che farà l’attrice. Ma gli Nyong’o la vogliono imprenditrice, medico, addirittura ambasciatrice, come si addice a una ragazza dell’alta borghesia ("Magari fare la regista, ma recitare, per loro, era soltanto un hobby"). E quanto tengano alla carriera di Lupita, anche oggi che ha fatto a modo suo, è evidente da una recente intervista della madre, direttore dell’Africa cancer foundation nonché proprietaria di una società di telecomunicazioni, in cui "il successo di mia figlia" è l’espressione ricorrente, oltre a "seguita da uno staff molto capace, da una stylist esperta, da un ufficio stampa di professionisti".
A 16 anni, Lupita viene mandata in Messico a studiare lo spagnolo (parla anche swahili e italiano) e decide di studiare regia e cultura africana in un college del Massachusetts. Nel 2009 scrive, dirige e produce il documentario In my genes, sulla discriminazione degli albini in Kenya. Ma non riesce a togliersi la recitazione dalla testa. Accettata alla Yale School of Drama, da cui sono usciti Meryl Streep, Elia Kazan e John Turturro, ottiene il ruolo d’esordio prima ancora di arrivarci (a un party, come si conviene a una star): una ragazza in cerca di avventure di una notte in una serie tv di Mtv Base Africa sull’aids. Lungimirante, decide di prendersi un agente.
Nel 2012 il regista inglese Steve McQueen la chiama a interpretare Patsey, schiava e preferita di Edwin Epps (Michael Fassbender, con cui si è vociferato di una relazione), il sadico proprietario della piantagione di cotone in cui è ambientato 12 anni schiavo. "Quando ho detto a mio padre che avrei recitato con Brad Pitt, il suo unico commento è stato: Ah, allora hai un lavoro". Nel film, Nyong’o viene violentata, accoltellata, frustata fino allo stordimento: la sua performance è strepitosa. Che insieme a una bellezza che ricorda un po’Alek Wek leva le le cover di We Dazed & Confused. Certo, vincere l’Oscar da esordiente ha i suoi svantaggi: i ruoli forti per una donna di colore non sono molti a Hollywood, e non a caso 12 anni schiavo è diretto e interpretato da non americani ("Negli Usa la prima cosa che notano è il colore della pelle" osserva. "Non mi ero mai sentita nera prima di arrivare qui"). Il suo prossimo film sarà più commerciale: l’action-thriller Non-stop, con Liam Neeson. Ma in qualunque cosa metta la testa Lupita riuscirà. È costruita per il successo.