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December 24 2019
on tutte le mafie sono uguali per la sinistra. Se nel milieu giudiziario, politico e giornalistico progressista si sono costruite importanti carriere occupandosi di Cosa nostra, di camorra e di ’ndrangheta, quelli che per Leonardo Sciascia erano i professionisti dell’antimafia esercitano un altrettanto robusto impegno negazionista sulla mafia nigeriana. Eppure il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, appena 20 giorni fa in un’audizione parlamentare l’ha definita «l’organizzazione criminale attualmente più potente in Europa in forza della tratta di esseri umani e dello spaccio di droga».
Per Cafiero De Raho «ha ormai articolazioni presenti in quasi tutte le regioni d’Italia e in quasi tutta Europa». Ma c’è una regione dove proprio la mafia nigeriana non deve esserci: le Marche e in particolare Macerata. Il motivo? Esclusivamente politico e legato a una vicenda che ha scosso il mondo intero: l’uccisione di Pamela Mastropietro, la ragazza romana massacrata dal nigeriano Innocent Oseghale, che dopo averla stuprata e uccisa ne fece a pezzi il corpo, poi ritrovato in due trolley abbandonati in una strada di periferia, il 31 gennaio del 2018.
Pochi giorni dopo Luca Traini compì un raid per le strade di Macerata sparando contro persone di colore: ne ferì sei, tre furono in seguito arrestate per spaccio. Traini sta scontando 12 anni per l’accusa di strage, su di lui l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro ha scritto un libro, L’Uomo Bianco. Ma su Pamela Mastropietro nessun maître à penser si è esercitato. Nessuno che abbia risposto alle cento domande poste dall’avvocato di parte civile Marco Valerio Verni, lo zio della povera ragazza, che si risolvono in un’affermazione: Pamela è vittima della mafia nigeriana. Ma il procuratore di capo di Macerata Giovanni Giorgio ha sempre negato questa eventualità. Oseghale è un cane sciolto: ha preso l’ergastolo e il caso è chiuso.
Ma le cose stanno davvero così? Una settimana fa, all’arrivo di Giorgia Meloni a Macerata, un gruppetto di contestatori l’ha accolta con cartelli di scherno: «Un soldino per la droga, uno per la mafia nigeriana». A Macerata, la sinistra non riesce a mandar giù l’idea che questa città sia stata elevata a cattedrale delle «cosche nere». Dopo il delitto di Pamela, la Lega è passata da 4 al 38 per cento e Oseghale ha fatto saltare il banco dell’accoglienza che aveva consentito al Gus di Macerata - una onlus di sinistra che ha ancora conti aperti con la giustizia per presunte evasioni fiscali milionarie e ha ora licenziato metà dei suoi 400 dipendenti - di passare in cinque anni da due a oltre 40 milioni di fatturato.
Eppure lo stesso procuratore Giovanni Giorgio ha elogiato il lavoro del questore Antonio Pignataro che in meno di due anni - è stato spedito a Macerata dopo il delitto Mastropietro - ha arginato il fiume di droga che passava dai Giardini Diaz in centro città. Ha sequestrato quasi cinque quintali di stupefacenti e operato centinaia di arresti nell’Hotel House, un condominio a Porto Recanati dove vivono oltre tremila persone di 34 etnie diverse, e dove è stato anche trovato un cimitero clandestino. Pignataro sostiene che lo spaccio è organizzato, ma guai a chiamare tutto ciò mafia. Eppure Cafiero De Raho insiste: «Sta emergendo l’ipotesi di una struttura verticistica unitaria che opera al di sopra dei diversi gruppi criminali nigeriani e coordina il traffico di droga e di clandestini». Insomma è mafia. E appena una settimana fa un’indagine partita dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari ha dimostrato che le Marche sono un crocevia della malavita nigeriana.
A Bari sono comparsi due culti - i Supreme Vikings Confraternity Arobaga e Supreme Eyie Confraternity - che avevano base operativa nel centro d’accoglienza per richiedenti asilo di Palese e nel quartiere Libertà. È accertato che facevano riti vudù e iniziazioni rituali con sangue umano, tagli sul corpo praticati dal santone e che esistevano ordini gerarchici. Ebbene, dei 32 arresti operati in otto regioni italiane e in quattro Stati europei su ordine di cattura del pool costituito dalle pm Simona Filoni e Lidia Giorgio, con il procuratore Giuseppe Volpe e l’aggiunto Francesco Giannella, uno è stato eseguito ad Ancona: è il nigeriano God Parawa Agedu, 29 anni, ritenuto il capo di una delle due «cosche», con il suo quartier generale a Falconara. Anche un’altra procura si è mossa nelle Marche: la Direzione distrettuale antimafia dell’Aquila.
Tra Teramo, Ascoli, Fermo e Macerata sono stati fermati nove nigeriani (cinque uomini e quattro donne). Gli inquirenti abruzzesi sono convinti di aver messo le mani su una cosca che, con riti vudù e altre violenze, faceva prostituire ragazze reclutate in Libia e fatte arrivare da clandestine in Italia, ma aveva anche compiuto il salto nella finanza. In meno di un mese son stati spediti, in oltre cento voli tra Pescara, Ancona e la Nigeria, più di sette milioni e mezzo di euro: la conferma che sulla sponda adriatica ha preso piede la «awala», un sistema di trasferimento fiduciario illegale di denaro.
Gli inquirenti sospettano che la mafia nigeriana stia infiltrando anche l’economia legale. Il pentito di ’ndrangheta Vincenzo Marino lo aveva anticipato al processo Mastropietro: Oseghale gli avrebbe confidato di essere affiliato alla mafia e di dover reinvestire i soldi della droga in case dove far prostituire le nigeriane. Ma di questa deposizione non si è saputo più nulla, così come di un furto di due computer denunciato da Daniel Amanze, nigeriano che da oltre 25 anni vive a Macerata. I computer sono spariti nei giorni caldi di Traini dalla sede della sua Acsim, una onlus (finita anch’essa nel mirino del fisco come il Gus) che si occupa dell’accoglienza di nigeriani. Cosa c’era in quei computer? Nessuno lo sa.
E nessuno ha prestato attenzione a un rapporto della Digos steso il 10 agosto 2016, subito dopo i funerali di Emmanuel Chidi Namdi. Il giovane nigeriano morì dopo una rissa con Amedeo Mancini che ha patteggiato quattro anni. Ai funerali c’erano Laura Boldrini, Maria Elena Boschi (allora ministro), David Sassoli (attuale presidente del Parlamento europeo) e Cécile Kyenge per il Pd. La Digos scrive che in Duomo, a pochi banchi dal governo italiano, «c’erano affiliati alla mafia nigeriana che rendevano omaggio al loro adepto».Ma a quel report non c’è stato seguito, così come alle dichiarazioni di Marino. Perché quando parla di ’ndrangheta consentendo al magistrato Nicola Gratteri di concludere importanti blitz, è ritenuto credibilissimo, ma se parla dei nigeriani rischia un’incriminazione per falso. Le mafie non sono tutte uguali.
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