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July 04 2017
La crisi dei Migranti, che in queste ultime ore investe contemporaneamente Bruxelles, i rapporti Roma-Vienna e le coscienze di molti, ha un sapore tutto particolare nei paraggi del Faubourg Saint-Honoré a Parigi.
All’Eliseo Emmanuel Macron si trova infatti a gestire la prima crisi da quando ha trionfalmente vinto le elezioni presidenziali e quelle legislative, da quando insomma, brandendo il frusto vessillo dell’Europa, sembra aver battuto i populismi.
Però in queste ultime ore sembra aver quantomeno ridimensionato la sua versione europeista, almeno sul tema dell'accoglienza dei migranti, dopo i vari "no" alle proposte italiane sull'apertura di nuovi porti per l'accoglienza delle navi che raccolgono i profughi nel Mediterraneo e sull'ampliamento delle procedure di "ricollocamento".
- LEGGI QUI i no della Francia alle proposte italiane
Certo questa narrazione non è errata, ma al massimo è una traccia degna per l’esame di maturità. C’è dell’altro dietro al cambio di rotta di Macron sul tema della solidarietà europea.
Ci troviamo di fronte, prima di tutto, al décalage tra campagna elettorale e responsabilità di governo, nel caso di Macron tanto più evidente in quanto i grandi slanci ideali, sulle note dell’Inno alla gioia, sono stati la ricetta della vittoria. All’approssimarsi del primo 14 luglio da Presidente, delle tre parole chiave che hanno fatto dell’Ottantanove il verbo dei progressismi, la fraternité appare decisamente la più debole nel pantheon macronista.
Una debolezza che ha permesso alla parola di sopravvivere impressa sul merchandising della Rivoluzione, ma non impressa nel sentimento della politica. Ventimiglia come una Linea Maginot allora, coi confini d’Italia presidiati dalle forze francesi contro qualsiasi logica di fraterna collaborazione tra Stati, e ancora prima elementare senso di umanità verso i migranti.
L’altro punto scomodo è la riforma di Dublino III che la Commissione (oggi solo 40 deputati in aula per parlare di flussi, ma guai a definire ridicolo il colpo d’occhio) sta perfezionando in questi mesi e che, gattopardescamente, cambierà tutto per non cambiare nulla. Infatti il pilastro base di Dublino, ossia la competenza dello stato di primo approdo, rimane intatta.
Italia e Grecia (già membri dei memorabili PIGS) continueranno a rappresentare la trincea avanzata della Fortezza Europa. Davanti ai loro occhi c’è solo una politica di quote mai decollata e una stretta giuridica sulle procedure di richiesta di asilo. E alle loro spalle? La Turchia.
La Turchia è il deposito dei migranti; la definizione giuridica è “Stato di transito sicuro” postulata dalla Commissione UE e che si traduce con la facoltà da parte dell’Europa di far defluire in Turchia – al costo di 3 miliardi di euro per il 2016-2017 – i migranti indesiderati. La stessa cifra è prevista per l’annata successiva.
Ora se Bruxelles s’intende meglio con Ankara che con i suoi 27 membri, o l’Italia riesce a stringere 267 accordi segreti (lo ha detto il capo della polizia Franco Gabrielli a l’Avvenire) con paesi terzi, qualcosa nella dialettica europea non va. Forse si tratta dell’eccesso di retorica (esiste quella in salsa becera alla Le Pen, ma esiste anche quella nouvelle cuisine alla Macron) che al primo ostacolo s’infrange contro la legge della real politik?
Macron conosce la politica europea e domina quella francese. La sua principale alleata per il rilancio del Vecchio Continente, centrista come lui, è quell’Angela Merkel che sul tema migranti ha dimostrato, stupendo molti osservatori, altruismo e solidarietà. Macron ha due strade davanti a sé: quella del ragionamento piccolo borghese (lui che detesta il petit milieu) basato sull’odiosa distinzione tra migranti per guerre e migranti economici, o quella di una visione più ampia.
In bilico tra Orbán e Merkel, mentre si prepara a ricevere Donald Trump, in queste ore Macron si gioca la propria immagine europea.