mafia-capitale-processo
ANSA/ANGELO CARCONI
News

Mafia Capitale: ma è davvero mafia?

Sono molti i commenti stupiti alla sentenza d’appello che ha ribaltato la logica della condanna di primo grado nel processo Mafia Capitale, stabilendo che i principali imputati sono responsabili del reato di associazione mafiosa, quello definito dall’articolo 416 bis del Codice penale.

I commenti sono stupiti non soltanto per il ribaltamento logico in sé (in primo grado il Tribunale di Roma aveva escluso che l’associazione di Carminati e Buzzi fosse da considerarsi mafia in senso stretto) ma anche dalla decisione: può definirsi mafia quella che agisce senza armi, senza un esercito di “picciotti”, senza la classica intimidazione, e senza omertà?

In realtà, la giurisprudenza della Cassazione da tempo si è orientata in questo senso. Nel 2015, per esempio, la sesta sezione della Cassazione aveva stabilito che al 416-bis non siano riconducibili soltanto le grandi associazioni di mafia "con un elevato numero di appartenenti", le solite organizzazioni criminali "dotate di mezzi finanziari imponenti", e in grado di produrre "assoggettamento e omertà attraverso il terrore e la costante messa in pericolo della vita delle persone": al contrario, nella fattispecie rientrerebbero anche "piccole organizzazioni criminali" con un basso numero di componenti capaci di assoggettare un territorio anche limitato, o un determinato settore di attività, avvalendosi però del "metodo mafioso", e quindi di una "forza d’intimidazione" che promana dal vincolo associativo, e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e omertà delle vittime.

Il "caso Teardo", l'antefatto

Circa 30 anni fa c’era stato anche un importante antefatto, che in questi giorni nessuno ricorda: un antefatto a suo modo illuminante sull’evoluzione del pensiero della Cassazione, già in quel periodo: è il "caso Teardo" del 1983, che prende il nome dal politico socialista divenuto prima assessore, poi vicepresidente e infine presidente della giunta regionale della Liguria.

Teardo era un politico in forte ascesa, un craxiano anticomunista, detestato dalla sinistra. In un’inchiesta passata alla storia per il suo clamore, quasi una prefazione all’imminente stagione di Tangentopoli, i pubblici ministeri genovesi lo fecero arrestare pochi giorni prima delle elezioni politiche, insieme a un gruppo di politici e amministratori liguri, contestando a tutti il reato di associazione mafiosa.

Gli indagati erano accusati di avere sfruttato la loro posizione e il loro potere politico per acquisire il controllo di una serie di appalti pubblici. In particolare, i pm accusavano Teardo di avere obbligato gli imprenditori che partecipavano alle gare della Regione a pagare una percentuale per ottenerne gli appalti.

Dire no a Teardo e ai suoi, secondo l’accusa, significava l’estromissione dalle gare successive. Teardo, che continuò a dichiararsi innocente (e anche in recenti interviste ha ripetuto le sue proteste) trascorse circa due anni in carcere, ma nel 1989 l’accusa di mafia decadde in Cassazione.

La corte precisò che "non può essere enfatizzato lo schema dell’art. 416-bis fino al punto di postulare condizioni di sostanziale plagio sociale generalizzato o addirittura, come qualcuno ha detto, un’adesione generalizzata contro lo Stato all’organizzazione criminale che allo Stato si è sostituita".

Già allora, però, i supremi giudici scrissero che è vero che esistono "mafie potentissime radicate sul territorio, con una rete estesissima che realizza un fortissimo controllo sociale, anche legittimate da un ambiente che non solo non reagisce ma in molti casi è portato a interagire con il contro-potere criminale". Ma aggiunsero che "esistono anche tante mafie che non hanno tali caratteristiche e che pure possono essere riportate al modello di stampo mafioso solo per la metodologia che adottano".

Era la prima porta aperta verso la filosofia giudiziaria della pan-mafiosità, quella cui stiamo assistendo oggi con la condanna d’appello di Mafia Capitale.

YOU MAY ALSO LIKE