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May 17 2019
Dalle sue finestre al ventesimo piano della World join center tower, uno dei grattacieli che svettano sull’area un tempo occupata dalla vecchia fiera di Milano, si gode a 360 gradi il panorama della città. La cucina, raffinata, ha guadagnato una stella Michelin. Anche l’ambiente è elegante: tavoli in rovere, sedie in pelle, stoviglie di Limoges... Per tutto questo, non a torto, il ristorante si chiama Unico. Ma unica è un po’ anche la sua storia, perché sul lussuoso locale milanese, da tre anni esatti, si combatte una battaglia fatta di carte bollate e accuse inquietanti.
La guerra è cominciata con un’interdittiva antimafia, datata aprile 2016, dove la prefettura sostiene che il ristorante nasconda capitali della ‘ndrangheta calabrese. Dall’altra parte c’è la società, che contesta i sospetti come «falsi e diffamatori». In mezzo, da allora, si è esteso un mare di ordinanze e ricorsi. Sta di fatto che nel giugno 2018 i messi comunali hanno apposto i sigilli alle porte di Unico. Quella chiusura è stata poi annullata due mesi dopo dal Tribunale amministrativo regionale. Ma lo scorso gennaio una conferma dell’interdittiva ha nuovamente bloccato il ristorante. In base alla tesi della prefettura, Unico avrebbe come socio di maggioranza Massimiliano Ficarra, un commercialista di Gioia Tauro.
In una loro indagine, i carabinieri hanno annotato che Ficarra sarebbe «al servizio di varie famiglie criminali di accreditata appartenenza ‘ndranghetista», nonché «membro di una organizzata ed efficace attività di riciclaggio, con particolare attenzione al reimpiego in attività economiche del denaro proveniente dall’associazione mafiosa dei Molè-Piromalli». Ficarra ha protestato la sua innocenza «senza timore di smentita», ma la prefettura non s’è smossa di un millimetro. Si vedrà, prima o poi, come andrà a finire questa storiaccia.
Va detto che le interdittive antimafia non nascono da sentenze definitive, ma da indagini a volte anche in embrione, e proprio per la loro brutalità applicativa sono uno strumento controverso. A scatenare l’intervento del prefetto, del resto, può bastare anche una denuncia strumentale» accaduto di recente a Rocco Greco, un imprenditore di Gela attivo nei rifiuti che (paradossalmente) era da tempo considerato proprio un simbolo della lotta a Cosa nostra. Contro l’imprenditore nel 2018 sono partite querele malevole e, a sua volta, anche lui è stato accusato di connivenza con i clan nisseni. Una serie di proscioglimenti e di assoluzioni non è bastata a impedirgli la mannaia di un’interdittiva, arrivata lo scorso ottobre: così anche a Greco sono state bloccate le licenze e soprattutto gli appalti pubblici, e all’inizio dello scorso marzo per la disperazione l’uomo s’è sparato un colpo.
La cautela sulla veridicità delle interdittive antimafia, insomma, è d’obbligo. Resta il fatto che la vicenda del ristorante Unico preoccupa e, soprattutto, non è affatto isolata. Perché da tre anni, a Milano, le chiusure di esercizi commerciali ordinate dalla prefettura si sono messe a fioccare con frequenza a dir poco impressionante. Nel 2017 i casi erano stati 11, ma l’anno scorso sono aumentati a 14, e al 15 marzo del 2019 sono già nove. E si dice che siano una cinquantina i provvedimenti sul tavolo del prefetto, ma ancora non firmati. Particolarmente colpiti dalle misure antimafia, fin qui, sono stati proprio gli esercizi pubblici: dai primi di gennaio alla metà di marzo, oltre che al lussuoso ristorante sul grattacielo, la prefettura ha individuato contatti con la criminalità organizzata per tre caffè e una pizzeria napoletana dalle parti di piazzale Loreto, la Frijenno magnanno, accusata di legami con un clan di Camorra. In questo scorcio d’anno, altre chiusure sono andate a colpire un negozio di tatuaggi, una gioielleria del centro e un vivaio di piante e fiori.
Nel 2018 le interdittive avevano colpito soprattutto ristoranti, rosticcerie e caffè, ma anche una discoteca nel cuore della movida cittadina e perfino una storica farmacia milanese.
A fare da cornice e substrato a questa raffica di chiusure «per presunta mafia» è l’incredibile fioritura di nuovi locali in città. Secondo i dati del Comune, a Milano oggi sono attivi 9.044 tra bar e ristoranti, e questo escludendo dal novero quasi 3.200 fra ristoranti aziendali e locali ospitati in teatri e cinema. Ma nel 2018 sono stati aperti 336 nuovi esercizi, praticamente uno al giorno. Mentre altri 656 caffè e ristoranti sono passati di mano: quasi due compravendite ogni 24 ore. Un ritmo obiettivamente troppo vivace, secondo studiosi e inquirenti, anche per la nuova vocazione turistica di Milano, quella che è letteralmente esplosa dopo il lancio planetario della metropoli grazie all’Expo del 2015: «In quattro anni bar e ristoranti in città sono aumentati del 40 per cento, davvero un po’ troppo» dice Michele Riccardi, senior researcher di Transcrime, il centro di criminologia dell’Università Cattolica, «e questo conferma che Milano, proprio per la vivacità della sua economia, è quasi inevitabilmente deputata al riciclaggio mafioso».
Anche i grandi e costosi rinnovi dei locali, sottolinea Riccardi, sono perfettamente coerenti con la necessità di ripulire capitali sporchi. Che un’economia fiorente attragga gli investimenti delle mafie, del resto, l’ha segnalato in febbraio la Direzione investigativa antimafia nella sua ultima relazione al Parlamento: nel capitolo sulla Lombardia, la Dia scrive che nel 2018 nella Regione sono stati denunciati 507 tentativi di estorsione, 30 pratiche di usura, e ben 381 casi di riciclaggio, con cospicui investimenti in imprese e in esercizi commerciali.
In campo giudiziario, la stessa Procura di Milano è in piena allerta. Negli uffici al quarto piano del palazzo di giustizia, gli inquirenti osservano con attenzione il proliferare di caffè, pizzerie, ristoranti e catene di ristorazione, in particolare quelli dai nomi o dai riferimenti in qualche modo partenopei. Qualcuno ricorda anche l’allarme, allora criticato ma troppo a lungo inascoltato, con cui nel 2007 a Roma la segretaria radicale Rita Bernardini segnalò l’improvviso caleidoscopio di aperture e di ristrutturazioni di locali «dove si parlava soltanto il napoletano» (vedere box sopra). Alessandra Dolci, procuratore aggiunto e capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, va oltre il dato etnico-mafioso e si dice convinta che certi ristoranti alla moda oggi servano anche «per creare quella rete relazionale che arricchisce il patrimonio di un’associazione criminale con personaggi famosi, sportivi e nomi da spendere».
Anche il Comune si preoccupa. Ai primi d’aprile Cristina Tajani, dal 2001 assessore al Commercio, ha siglato con la prefettura un piano per la prevenzione antimafia: «Non si faranno più solo verifiche a campione su gestori e proprietari degli esercizi» spiega Tajani «ma si svolgeranno controlli diffusi, basati su specifici indicatori di rischio». Per prime verranno certe merceologie più «a rischio» : ristoranti, bar, centri massaggi e negozi di tatuaggi. Poi si terranno d’occhio gli esercizi interessati da un maggior numero di passaggi di mano. «Un problema» sottolinea l’assessore «è che oggi possiamo fare controlli solo ex post, perché dal 2011 il governo Monti, con le liberalizzazioni del commercio, di fatto ha cancellato le licenze per i pubblici esercizi e le ha sostituite con le Scia, le Segnalazioni certificate di inizio attività». Purtroppo sembra essersene avvantaggiato anche chi non doveva: il crimine organizzato.
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