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January 10 2017
Ci sono stati pochi articoli, nella nostra storia, che siano stati così citati, criticati e anche celebrati quanto I professionisti dell'Antimafia, una dotta ricostruzione sui rapporti tra mafia e politica realizzata da Leonardo Sciascia, nel quale l'autore de Il Giorno della Civetta, partendo dalla rencensione di un libro dello storico inglese Christopher Duggan, polemizzava tra gli altri con Leoluca Orlando, il sindaco della cosiddetta primavera palermitana, e con Paolo Borsellino, il magistrato che cinque anno dopo sarebbe stato ucciso a Palermo da Cosa Nostra. Accusati entrambi, da Sciascia, con diverse sfumature, di usare la battaglia morale per la rinascita morale della Sicilia per fare carriera, in politica e nella magistratura.
Quell'articolo, a trent'anni dalla sua uscita sulle pagine del Corriere della Sera, è ancora oggi, un po' come Vi odio, cari studenti di Pier Pasolini, fonte di furibonde polemiche, l'ultima delle quali scritta di suo pugno da Nando Dalla Chiesa su Il Fatto Quotidiano (Con Sciascia cominciò la fine di Falcone). Un articolo, di cui vale la pena citare alcuni passaggi, per la virulenza con cui il professore accusa Sciascia di essere indirettamente responsabile, a causa di quell'articolo, della morte dei due magistrati assassinati da Cosa Nostra.
L'accusa, terribile e post mortem, prende le mosse dalla tesi sostenuta in questi giorni dal giornalista Felice Cavallaro sul Corsera, secondo la quale lo scrittore siciliano (che fu bollato allora come un quaquaraquà da un comitato di giovani antimafiosi) non intendeva affatto fare terra bruciata attorno a Paolo Borsellino, con cui ci fu anche, un anno più tardi, secondo Cavallaro, una cena di riconciliazione testimoniata da una foto scattata a Palermo il 25 gennaio 1988.
La polemica nacque nel pieno del maxiprocesso e aveva un solo bersaglio nominativo: Paolo Borsellino. Cavallaro dice che non è vero, che l'accusa era rivoltas al Csm, colpevole di aver nominato Borsellino procuratore capo di Marsala contravvenendo al (pessimo) costume di usare l'anzianità di servizio invece dell'esperienza sul campo. No, il bersaglio era proprio Borsellino. Era lui il profittatore dei nuovi orientamenti del Csm. L'unica vera profezia che fece Sciascia in quell'articolo fu la seguente: "I lettori prendano atto che nulla vale di più, in Sicilia, per fare carriera nella magistratura, che prendere parte a processi di stampo mafioso". La carriera di Borsellino l'abbiamo poi conosciuta tutti. Cinque anni dopo saltò per aria in brandelli. Prima però fece in tempo a dichiarare nell'ultimo discorso pubblico, ricordando Falcone che "Giovanni ha incominciato a morire con quell'articolo sui professionisti dell'antimafia".
Parole durissime, come si legge. Parole scritte a trent'anni dall'uscita di quell'articolo che già allora divise gli intellettuali italiani, con una parte, bipartisan, schierata a favore della libertà di espressione dello scrittore siciliano (tra cui Rossana Rossanda sul Manifesto) e un'altra - cui aderirono Corrado Stajano, Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa, Stefano Rodotà, Franco Rositi - che, pur senza attaccare lo scrittore in modo virulento, che prese le partiti del Comitato antimafia che aveva bollato Sciascia come un quaquaraquà, termine entrato nel linguaggio corrente ma inventato dallo stesso Sciascia ne Il giorno della civetta, paragonandolo addirittura all'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
La verità, forse, è che di quell'articolo fu fatto, in parte, un pessimo uso. E che un pezzo della palude siciliana e nazionale vi lesse, non un dotto j'accuse politico contro il protagonismo e l'esibizionismo antimafioso, bensì un'occasione per attaccare i magistrati in prima linea contro Cosa nostra e i movimenti antimafia. E, ancora, che Sciascia fu spesso usato, suo malgrado, da quelli che sarebbero stati i suoi nemici, professionisti non dell'antimafia, ma della mafia e di di quella zona grigia di consenso senza la quale la Mafia non potrebbe esistere.