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December 12 2013
di Edoardo Montolli
In Grecia gli è bastato difendersi da solo per dimostrare la propria innocenza ed evitare l’ergastolo. In Italia, invece, i giudici non gli hanno mai creduto: da 24 anni giura che l’omicidio per cui è stato condannato, fonte di tutti i suoi guai, non lo ha mai commesso. Tre testimoni oculari lo confermano, e pure un rapporto dei carabinieri indica il vero autore del delitto, ma non c’è verso di riaprire il caso. «La cosa sorprendente» spiega il suo avvocato Claudio Defilippi «è che la Corte d’appello di Venezia ha ammesso la revisione del processo grazie ai nuovi testimoni che avevamo trovato. Ma poi, senza nemmeno ascoltarli, l’ha dichiarata inammissibile».
Protagonista di questa odissea giudiziaria è Raffaello Accordi, 61 anni, che oggi vive in affitto in un casolare della campagna veneta con l’anziana madre, la convivente e la figlia di 9 anni, e che quando comincia questa storia kafkiana è un imprenditore di successo. «Poi un giorno ho commesso una cazzata» ammette, scuotendo la testa. «Però non ho ucciso io Giovanni De Luca: era il mio migliore amico».
LA STORIA
La storia inizia nel 1987, quando Accordi apre un bar e un concessionario di auto da 800 metri quadri a Gazzo Veronese. «Ero il miglior venditore di macchine della zona» sorride l’uomo. Ma arriva la crisi economica: alcuni clienti non lo pagano. «Mi trovai in rosso di 80 milioni di lire». L’idea per uscirne la prospetta un uomo di cui è diventato amico: l’ex commerciante di giocattoli Giovanni De Luca. «Vendeva macchine rubate, ma con documenti apparentemente in regola. Di fronte allo spettro di perdere tutto, orchestrai la cazzata: gli comprai tre auto a 7 milioni, le vendetti a una società di leasing per 30 e due me le feci rigirare dallo stesso leasing. In questo modo non fregavo nessuno e potevo disporre di liquidi».
Ma la Procura di Genova, che indaga sul giro, lo scopre in fretta. E gli contesta non l’incauto acquisto, ma il traffico internazionale di auto. «Cosa potevo dire? Raccontai di essere vittima di un raggiro di De Luca, il quale, tanto, viveva in Spagna. Aggiunsi che mi doveva 60 milioni di lire, mentre in verità me ne aveva fatti guadagnare 70». Il processo inizia, ma viene rinviato per ben 16 anni. Sembra un dettaglio, ma non lo è.
IL DELITTO
Il disastro accade due anni dopo. «La sera del 21 agosto 1989, mentre andavo ai Lidi Ferraresi, seppi da mio mio fratello che De Luca, appena rientrato in Italia, si era presentato al mio bar con la compagna e il figlio di lei. Ma appresi pure che Antonio Galasso, un boss della camorra in soggiorno obbligato, uno che aveva comperato auto proprio da lui, voleva parlargli nel suo capannone. Siccome mi riferirono che il boss era ubriaco, tornai indietro».
Nel capannone a Venera di Sanguinetto (Verona) ci sono diverse persone. «Galasso salutò calorosamente De Luca. Ma poi, all’improvviso, sferrò una testata, spaccandogli il naso. Quindi lo infilzò sulla coscia con quattro coltellate. Non ebbi nemmeno il tempo di capire: vidi il mio amico che sanguiva: lo caricai subito in auto e corsi all’ospedale. Non sembrava grave. Andammo così a Mantova, in modo che, per via della balla raccontata sul traffico d’auto, nessuno ci scoprisse insieme. Lo lasciai all’ingresso del pronto soccorso. Poi filai dalla sua compagna facendo finta di nulla e aspettando una sua telefonata».
De Luca, invece, muore la mattina successiva: una delle coltellate gli ha infatti reciso l’arteria femorale. Iniziano le indagini su quell’omicidio. I poliziotti scoprono dalla compagna del morto che era previsto un incontro con Accordi. Così vanno a interrogarlo: «Nessuno però mi disse subito che era morto. E io pensavo che gli agenti volessero chiedermi ancora della storia del traffico d’auto. Ripetei allora la balla del debito che De Luca aveva verso di me. E m’inventai pure che era stato aggredito da due tizi in macchina. D’altra parte mica potevo dire che Galasso lo aveva accoltellato: il boss avrebbe scannato me e la mia famiglia. I poliziotti mi lasciarono parlare. E alla fine mi rivelarono che De Luca era morto. Insomma, avevo infilato da solo la testa nel cappio».
Accordi viene arrestato per omicidio preterintenzionale in concorso con ignoti. Per gli inquirenti, Accordi avrebbe ucciso De Luca a causa del famigerato debito. Certo, è strano che uno accoltelli un tizio, lo porti in ospedale e poi fornisca sul vassoio il movente alla polizia. «Ma se il processo sul traffico d’auto si fosse fatto subito, sarebbe venuto fuori che De Luca non aveva alcun debito con me». Dell’amicizia tra i due parlano anche la madre e dalla compagna della vittima. Ma ci vogliono 5 anni perché il tribunale di Mantova assolva Accordi per non aver commesso il fatto. «Avevo già perso tutto. E mi portavo addosso un marchio da criminale».
Qualcuno ne approfitta. «Ero in povertà, e un tizio mi chiese di accompagnarlo in Grecia. Sulla sua auto trovarono 6 chili di eroina. Mi crollò il mondo addosso: ci diedero l’ergastolo in 20 minuti. Mi misi a studiare lingua e legge greca. E, mentre il coimputato accusava me portando in aula gli articoli sul delitto De Luca, in appello mi difesi da solo, senza avvocati. E dimostrai la mia innocenza».
Ma il labirinto s’infittisce. Perché, intanto in Italia i guai continuano a cadere sulla testa di Accordi: gli affibbiano una rapina commessa mentre era detenuto a Salonicco e non appena rientra in patria lo riprocessano anche per tentata introduzione di droga sul territorio nazionale, cioè il reato da cui è appena stato assolto in Grecia. Archiviate queste due inchieste, ecco la mazzata finale: nel processo di appello a Brescia per l’omicidio De Luca, Accordi viene condannato a 5 anni e 4 mesi. Movente, luogo e complici del delitto non saranno mai individuati.
È il 1998. «Speravo che fossero gli altri presenti nel capannone a dire la verità. Ma tutti avevano paura di Galasso». Un anno più tardi la sentenza viene confermata dalla Cassazione e diventa definitiva. Ma Accordi intanto si fa altri 9 mesi di galera a Firenze per il traffico di droga, prima che il giudice si accorga che non c’entra niente: «Sicchè, per la condanna per omicidio, tolti i nove mesi di ingiusta detenzione a Firenze e i 20 mesi ingiusti in Grecia, più la parte scontata all’inizio, mi restavano da scontare tre anni circa. Uscii dal carcere nel 2001». Tre anni più tardi giunge però anche la condanna per il traffico di auto rubate, il processo che doveva iniziare 16 anni prima. E il solo che, a sentire Accordi, avrebbe una ragione di esistere.
REVISIONE
Da tutto il resto delle accuse, invece, l’uomo continua a proclamarsi innocente Possibile? Di certo, a confermare che non c’entra con l’omicidio c’è il racconto di tre diversi testimoni e perfino un rapporto dei carabinieri di Legnago, che parlava di una telefonata anonima mai controllata, risalente a cinque giorni dopo il delitto, in cui una voce riferiva di aver visto Accordi caricare De Luca ferito sulla propria auto, fuori dal capannone di Galasso.
Il boss finì così indagato nel 2005, ma pochi mesi dopo morì in un conflitto a fuoco tra camorristi. E il caso non si riaprì più. «Dopo la prigione andai a vivere in Spagna» dice Accordi. «Nel 2011 sono tornato per accudire mia madre. E ho fatto invano due richieste di revisione».
La Cassazione, a metà novembre, ha confermato il verdetto della Corte d’appello di Venezia: quest’ultima ha ritenuto inattendibili i tre testimoni, senza però averli ascoltati. E ha ritenuto inattendibile anche il fatto che Accordi non abbia mai parlato per paura di un boss camorrista. Ma è l’ultimo dettaglio, ripreso dalla vecchia sentenza di condanna per omicidio a Brescia, che inquieta e dà ragione ad Accordi, dimostrando che il marchio affibbiatogli sia stata la causa di tutto. Scrivono infatti i giudici: «Non si può trascurare il fatto che Accordi risulta essere stato detenuto in Grecia in relazione a un rilevante traffico di sostanze stupefacenti». Peccato che Accordi, in Grecia, sia stato assolto.