Lifestyle
March 16 2013
di Stefano Lorenzetto
Se vogliamo considerare la vita un’olimpiade quotidiana, Giovanni Malagò, 54 anni compiuti il 13 marzo, ha ampiamente meritato di passare dalla guida del Circolo canottieri Aniene di Roma alla presidenza del Coni, il Comitato olimpico nazionale italiano. Non c’è, infatti, disciplina dell’umana esistenza in cui non abbia giganteggiato.Amore. Prima le nozze (sciolte dalla Rota romana) con Polissena di Bagno, discendente dei Malatesta immortalati nell’inferno dantesco per l’adulterio di Paolo e Francesca. Poi quattro anni con Lucrezia Lante della Rovere, che gli ha dato due gemelle, Ludovica e Vittoria.
Passioni travolgenti (mai ammesse) per Monica Bellucci, Elenoire Casalegno, Claudia Gerini, Serena Autieri; flirt (sempre negati) con Carla Bruni («Le voglio molto bene»), Asia Argento («Intelligenza superiore, carattere difficile»), Martina Colombari («Ogni giorno più bella di quando l’ho conosciuta»), Flavia Vento («Profonda e sensibile»), Anna Falchi («Un’amica»), Alessia Merz («Simpatica ma faziosa, una juventina antiromanista: sono cose che non si sopportano»).Lavoro. È stato il più importante agente della Bmw a livello planetario, tanto che la casa di Monaco di Baviera alla fine rilevò la sua concessionaria. Lo è ancora della Ferrari e della Maserati. Ha venduto con eguale successo Rolls-Royce e Bentley. Prima della crisi, piazzava ogni anno 8 mila vetture. Oggi ha interessi anche nella nautica, nell’immobiliare, nella finanza ed è advisor della Hsbc, seconda banca al mondo dopo la cinese Icbc.Pubbliche relazioni. Ha fatto sposare Luca Cordero di Montezemolo con Ludovica Andreoni, che era la responsabile della sua segreteria per le manifestazioni sportive («La prima volta che li invitai nella mia villa di Sabaudia, dissi loro: siete fatti l’uno per l’altra»), e il chirurgo Renato De Angelis con l’attrice Margherita Buy («Donna incline alla malinconia, lui l’ha capita e aiutata»).Amicizia.
Per 20 anni è stato il confidente di Gianni Agnelli, che lo tirava giù dal letto alle 6 del mattino per farsi raccontare gli ultimi pettegolezzi capitolini («Il lato pregiato del gossip, prego»), a cominciare da quelli raccolti la sera prima a casa del principe Carlo Caracciolo, editore della Repubblica e dell’Espresso nonché cognato dell’Avvocato, che radunava per il poker Jas Gawronski, Claudio Rinaldi, Pietro Calabrese e Gianluigi Melega.Quando Edoardo Agnelli morì suicida, Malagò non si limitò a esprimere la sua partecipazione al lutto del padre sulla Stampa, il giornale di famiglia. No, fece pubblicare identici necrologi anche su Corriere della sera, Repubblica e Messaggero. Lo scorticai in un editoriale, mi sembrava che cercasse visibilità a spese del defunto: chi mai spedirebbe per posta quattro messaggi di condoglianze tutti uguali e tutti al medesimo destinatario? Mi raggiunse sul cellulare, ignoro come, visto che non ci conoscevamo: «Ho letto le cose indegne che lei ha scritto. Le ho commentate con Gianni Agnelli. Era addolorato e indignato quanto me, più di me. Aspetta una sua telefonata». Di scuse, intendeva. Spiegai le mie ragioni. Alla fine riconobbe l’errore: «Too much». Troppo.Però mi sbagliavo anch’io. Il neopresidente del Coni è davvero come appare: uno sportivo leale, di un cameratismo disarmante. Non simula mai. Come si deduce dalla risposta alla prima domanda.
Contento della nomina?
L’anno prossimo toccherà a lei celebrare il centenario del Coni.A me non risulta nel modo più assoluto. (Chiede conferma ai collaboratori: «Scusate, ma nel 2014 ricorre il centenario del Coni?»). Ah, sì. Ricorrenza di alto valore simbolico. Farò di tutto perché lo sport dia una spinta propulsiva al nostro Paese.
Il Coni è una potenza: 95 mila società agonistiche, 11 milioni di tesserati. L’hanno eletta segretario del primo partito italiano.
Se c’è una qualità che mi riconosco, è il senso del dovere. Non tradirò la fiducia che è stata riposta in me. Sto lavorando al Comitato olimpico 16 ore al giorno.
Quanto conta il presidente del Coni?
Come il direttore generale della Rai? Meno?Non mi piacciono i confronti. Ci sono persone che contano per la carica e persone che valgono a prescindere dalla carica.
Per il Duce il Coni contava parecchio, tant’è che ci mise a capo personaggi di prim’ordine, come Aldo Finzi, Leandro Arpinati e Achille Starace.
Evitando inopportune comparazioni con l’Italia fascista, confido che i politici, quando metteranno mano alla Costituzione, colmino una lacuna: fra le oltre 10 mila parole della nostra Carta, il vocabolo «sport» non esiste.
A sospingerla verso la presidenza del Coni ha provveduto Gianni Letta, è così?
È stato un mio accanito tifoso. Fra noi c’è un legame d’affetto. Però mai come in questo caso i partiti non hanno influito per nulla sulla scelta finale, anche perché assistiamo a un’eclissi della politica.
Letta e Cordero di Montezemolo stanno per precipitare in un dirupo. Lei può salvare uno solo dei due. Chi afferra?
Mi consente di non rispondere?
No.
Letta è un punto di riferimento nella mia vita. Luca è un compagno di viaggio in tutto e per tutto.
Quindi salva Letta.
Dipende dalla situazione nella quale mi trovo.
Rischia di dare ragione al suo predecessore Franco Carraro, che dieci anni fa distillò un giudizio velenoso: «Malagò? Un fenomeno. Come quei giocatori che alla roulette capiscono il colore sul quale puntare. Passano dal rosso al nero e viceversa: sempre al momento giusto».
Velenoso, dice? A me sembrava un giudizio lusinghiero. S’è mai visto qualcuno che va al casinò per perdere? Di sicuro nella partita per il Coni non ho puntato né sul rosso né sul nero, ma solo su me stesso. Carraro non credeva nella mia candidatura, però mi ha riconosciuto il coraggio dell’incoscienza.
Il suo avversario Raffaele Pagnozzi, sconfitto per 5 voti, non l’ha presa bene.
Il dispiacere è comprensibile. Escludo che sia arrabbiato con me. Forse lo è con qualcuno dei suoi mancati elettori.
Perché, appena proclamato vincitore, quella falcata per correre ad abbracciare le sue figlie?
Sono stato un ragazzo padre, le ho tirate su io. Le avevo costrette a tornare da Los Angeles e da Città del Capo, dove lavorano. «Magari oggi vedrete vostro padre che perde, ma nei momenti importanti è giusto stare vicini» avevo detto loro, entrando al Coni. Lei non ha idea di quant’è infinito quel salone, saranno minimo 80 metri. C’è voluto un allungo per non stufare i presenti.
I suoi primi ricordi di sport?
Al Circolo canottieri Aniene, dove mio padre Vincenzo era socio. Avevo 5 anni e mia madre Livia mi aiutava a restare a galla in piscina.
All’Aniene è d’obbligo il tu. Cesare Romiti, la prima volta che vi mise piede e fu apostrofato con il pronome confidenziale, s’arrabbiò. Come mai nella percezione comune il vostro circolo profuma più di lobby che di sport?
Un pregiudizio senza capo né coda. Ci dipinge così solo chi non ci conosce. Ci riuniamo lì proprio per evadere dai nostri ruoli professionali. Si scherza, si fa cazzeggio alto. Dopodiché c’è anche chi discute di politica o di affari, ma come parlerebbe del tempo.
Vi aiutate?
I rapporti personali fanno parte del nostro dna. Ma siamo l’opposto della massoneria, tanto per capirci. L’Aniene è un ente non profit, si occupa di cultura e solidarietà, aiuta il terzo settore, promuove sport come il canottaggio e il tennis che a Roma sarebbero già scomparsi.
In che cosa si ritiene specialista?
Nell’organizzazione maniacale. Nel coinvolgere le persone che mi sono vicine. Nel dare la carica. Nell’offrire speranza. Le nuove generazioni ne hanno un gran bisogno.
Non sembra neanche un pariolino, da come parla.
Sono nato alla Collina Fleming, ai Parioli ci abito e basta. Mi considero per metà cubano e per metà romano. I miei si sposarono all’Avana. La mamma (nipote sia di Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia dal 1948 al 1960, sia di Pietro Campilli, ministro dc in cinque degli otto governi De Gasperi e poi nei gabinetti Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli, ndr)scappò quando prese il potere Fidel Castro. La nonna seppellì i gioielli di famiglia in giardino. Dovrei tornare là e scavare.
Perché Roberto D’Agostino la chiama Megalò? O il nomignolo lo inventò Susanna Agnelli?
Né l’uno né l’altra, me lo confermò Suni. Con Dagospia m’è andata bene, considerati i soprannomi che appioppa di solito.
Ma è megalomane o no?
È un difetto che non posso rimproverarmi. Sono ambizioso, questo sì, ma anche umile. Non frequento salotti, salto i pranzi per fare sport, la sera sono stanco morto e vado a letto presto.
È vero che dopo la prima cena con Lucrezia Lante della Rovere lei le mandò in dono un quadro di Giuseppe Capogrossi che l’attrice aveva visto a casa sua e che le era piaciuto?
Come lo sa? È vero. A distanza di 20 anni me l’ha restituito in cambio di altri due dipinti. Avevamo problemi di spazi nelle rispettive abitazioni.
Le ha dato due tele più piccole?
Più grandi. Di Mario Schifano.
Siete rimasti in buoni rapporti.
Ottimi. Lucrezia è la mia terza figlia. E Polissena, la mia ex moglie, una sorella.
«Il Secolo XIX», quotidiano di proprietà del marito di Polissena, Carlo Perrone, ha parteggiato per lei nella scalata al Coni?
I giornali non devono parteggiare. Lui sì, mi ha appoggiato. Siamo una grande famiglia allargata.
Della sua attuale compagna, Daniela Marzanati, che mi dice?
Ha una società che commercializza abiti vintage. Seleziona via web i migliori capi d’alta moda, li rigenera e li rivende. Stiamo insieme da cinque anni.
Un record.
Ha saputo capirmi, rispetta i miei equilibri.
Di tutti gli amori che le hanno attribuito, me ne può confermare qualcuno?
Sarebbe inelegante. La autorizzo a chiamare le interessate. Lo faccia dire a loro.
Ha molto ascendente sulle sue ex. È riuscito a convincere Carla Bruni a non querelare Fiorello.
Qualcuno l’aveva sobillata, facendole credere che le imitazioni dello showman fossero irriguardose. Le ho spiegato che non era affatto così, anzi che si trattava di pubblicità gratuita, e Carla ha capito.
Ma che ci fa lei alle donne?
Io? No... (Ride). Questa è una bella domanda. Secondo me, secondo me... (Barbuglia). Il discorso non riguarda solo l’altra metà del cielo. Mi reputo una persona che sa subito entrare in sintonia con gli altri, donne o uomini che siano.
Intelligenza emotiva.
Può essere.
I suoi amici più cari, oltre a Cordero di Montezemolo?
Renato, Albertino, Andrea, Giampaolo. Metta solo i nomi, per favore. (Renato De Angelis, Alberto di Bagno, fratello di Polissena, Andrea Pignoli e Giampaolo Letta, figlio di Gianni e amministratore delegato della Medusa film, ndr).
Enrico Lucherini, il press agent delle dive, ha sempre una stanza riservata alle Nannine, la villa di Sabaudia dove lei spesso ospita Monica Bellucci, Ilaria D’Amico, Francesco e Ilary Totti, Alessia Marcuzzi, Irene Ghergo?
C’è anche la «casetta Tornatore» di Giuseppe e il «capanno Verdone» di Carlo.
Dicono che Gianni Agnelli la apprezzasse anche perché gli presentava molte attrici. Si vocifera che un giorno abbia fatto atterrare l’elicottero fra le dune di Sabaudia per prelevare una giovanissima Anna Falchi a casa dell’amico Malagò.
Questa non è più letteratura rosa. Siamo alla fantascienza pura. Il mio rapporto con Agnelli era lontano anni luce da simili meschinità. Ci presentò suo nipote Lupo Rattazzi, figlio di Susanna, che è mio amico d’infanzia e da sempre mio partner al 50 per cento in tutte le imprese, a partire dalla società Gl, acronimo di Giovanni e Lupo. Io avevo appena 24 anni eppure con l’Avvocato ci demmo subito del tu.
Come avrebbe commentato la sua elezione al Coni?
Anzitutto avrebbe tifato molto per me. E poi si sarebbe divertito come un pazzo a vedere il capovolgimento dei pronostici. Era una delle classiche situazioni che lo mettevano di buonumore: l’effetto sorpresa, la faccia smarrita dei perdenti.
Da 1 a 10, quanto contava lo sport per Agnelli?
Nove. Però, attenzione: solo gli sport che amava lui, quindi il calcio, la vela, lo sci, l’automobilismo. Anche l’equitazione, che gli ricordava la gioventù sui fronti di guerra, arruolato nel 1º Reggimento Nizza Cavalleria di Pinerolo. E infine il nuoto. Fosse ancora vivo, mi chiederebbe notizie di Federica Pellegrini, stravedrebbe per lei.
A 10 anni dalla scomparsa, che ricordo serba dell’Avvocato?
Si sforzava di sdrammatizzare, di mantenere il solito brio, di non fare pesare la sua malattia. Mai una volta l’ho sentito lamentarsi dei guai fisici. S’è comportato da uomo. Poche settimane prima che morisse, gli chiesi se gli avrebbe fatto piacere rivedermi. «Certo, vieni» mi rispose. Lo raggiunsi a Villa Frescot, a Torino.
Con quali parole la congedò?
«Stammi bene, piccolo Malagò».
Mi tolga una curiosità: tiene ancora appesi nel suo ufficio un disegno della «Pietà» di Michelangelo e la foto di Papa Wojtyla che le dà la comunione?
No. La Pietà me la sono portata nello studio di casa, che è lo spazio più intimo, dove la sera raccolgo le idee. Nessun ospite mi crede quando gli spiego che l’ho fatta io col rapidograph all’età di 16 anni. Invece l’immagine di Giovanni Paolo II la tengo in camera da letto.
Dopo Benedetto XVI, che pontefice s’aspetta?
Universale, come le Olimpiadi. Sensibile alle povertà del mondo. Se non fosse europeo e avesse un colore della pelle diverso dal nostro, sarebbe bellissimo.