“Maleducati”. Perché l’educazione è centrale nel funzionamento della democrazia

Ci sono domande che acquistano un peso rilevante nella vita di una democrazia e, di riflesso, in quella dei cittadini e che mai come in questa fase storica si moltiplicano a dismisura.

«Cosa succede a una società quando non viene assicurato a ogni cittadino un livello adeguato di educazione? Cosa accade a una persona che non possiede gli strumenti essenziali per comprendere il mondo? Come si fa a garantire il funzionamento di una democrazia quando chi la abita non è messo nella condizione di offrire il proprio contributo?».

Sono soltanto alcuni degli interrogativi che si è posto Mario Caligiuri nel suo ultimo saggio “Maleducati. Educazione, disinformazione e democrazia in Italia” (Luiss University Press, 2024) di fronte alle gravi carenze educative e alla crescente disinformazione riscontrabili anche nel nostro Paese. Da un lato, dunque, l’istruzione continua a non essere ai primi posti delle agende politiche, con scarso rilievo nel dibattito pubblico e, dall’altro, come effetto dirompente, l’informazione eccessiva crea un pericoloso corto circuito per la democrazia.

Caligiuri, tra i massimi studiosi europei di intelligence, professore di Pedagogia della comunicazione all’Università della Calabria e direttore dell’Osservatorio delle politiche educative dell’Eurispes, affronta il doppio tema, incrociandolo con l’efficienza del sistema democratico.

Professore, lei pone il tema della fragile educazione e della dilagante disinformazione come pericolo per la nostra democrazia.

«In Italia, come altrove, lo spirito del tempo sembra essere identificato con un’educazione scolastica e universitaria “fragile” e con una disinformazione praticamente inarrestabile, che ha come obiettivo finale la conquista della mente delle persone. Entrambe, purtroppo, minano le basi della democrazia di questo inizio del XXI secolo».

Addirittura lei teme per le basi della nostra democrazia!

«Nel 1983, in piena guerra fredda, negli Stati Uniti venne pubblicato un rapporto che fece molto discutere: “A Nation at Risk”. Si mettevano infatti in relazione il livello dell’educazione e i pericoli per la democrazia, che sono strettamente collegati. L’ideologia della democrazia si basa su due elementi essenziali: la consapevolezza dei cittadini nell’individuare i rappresentanti e la responsabilità delle Élite pubbliche nell’assolvere alle funzioni per garantire gli interessi almeno della maggioranza della popolazione. Si tratta di elementi essenziali che richiedono prima di tutto un’adeguata educazione. Se così non è, non siamo di fronte a un autentico sistema democratico ma a una procedura elettorale».

In questo senso, allora, lei definisce la società contemporanea “maleducata”…

«Le mie riflessioni più che una fotografia del presente rappresentano un rito di allarme per l’immediato futuro. Come possono le democrazie resistere al confronto sempre più stringente con l’intelligenza artificiale? Per lo storico israeliano Yuval Noah Harari potremmo presto avere due distinte razze umane: una ristretta minoranza che gestirà e utilizzerà a proprio vantaggio l’intelligenza artificiale e le moltitudini che ne saremmo guidate, dando vita a una disuguaglianza spaventosa mai avvenuta nel corso dell’umanità. In una prospettiva del genere occorre capire che la democrazia non è solo la meno imperfetta forma di governo ma anche la meno imperfetta forma di giustizia sociale».

Un saggio “pedagogico” nel senso letterale del termine, allora.

«Infatti, bisogna accompagnare la metamorfosi del mondo che sta avvenendo davanti ai nostri occhi ma che non abbiamo ancora sufficientemente compreso, continuando ad usare parole, concetti culturali, categorie mentali, strumenti giuridici e teoria pedagogiche che fanno riferimento a quello stesso mondo che è in via di estinzione. E se è difficile la descrizione, lo è anche la comprensione. Inoltre, sarebbe necessario assegnare all’educazione un ruolo centrale nelle politiche pubbliche e nel dibattito culturale».

Un tema che coinvolge altri campi del sapere, ne siamo convinti.

«Il premio Nobel Joseph Stiglitz ha evidenziato che la società si è sviluppata attraverso l’aumento della capacità di apprendimento. Pertanto l’educazione viene prima dell’economia, ma i parlamenti si occupano di economia più che di educazione. e questo per una ragione molto semplice: l’economia dà risposte immediata, mentre l’educazione produce risultati dopo tempo».

Il tema riguarda l’Italia, ovviamente…

«Come tutti i paesi occidentali, dove si è interrotto il rapporto tra aumento dell’educazione e aumento dello sviluppo economico. Secondo me, i principali problemi del nostro paese sono rappresentati dalla diminuzione demografica, dall’invadenza della criminalità e dall’insufficiente livello di istruzione, che peraltro, stando alle classifiche nazionali e internazionali, presenta un abisso tra nord e sud del Paese. Eppure in Italia, come altrove, di fronte a ogni rilevante problema sociale, dalla disoccupazione all’immigrazione, dai femminicidi alla droga, dai rischi del digitale all’ambiente, si invoca sempre “più educazione”. E questo perché tutte le altre ricette sono già fallite».

Altro tema che lei evidenzia è quello della disinformazione, vera “emergenza” del nostro tempo.

«La disinformazione si manifesta in un modo molto preciso: con l’eccesso delle informazioni da un lato e il basso livello sostanziale di istruzione dall’altro. Questo crea un cortocircuito cognitivo che allontana ancora di più le persone dalla sempre difficile comprensione della realtà. E bisogna tenere presente che la disinformazione più pericolosa non è certo rappresentata dalle fake news ma è quella prodotta dalle istituzioni pubbliche e dalle multinazionali finanziarie. Pertanto, elevare il livello della qualità dell’istruzione pubblica, per rendere i cittadini consapevoli di diritti e doveri, rappresenta una necessità sociale».

Addirittura indugia, nel saggio, in una “storia della disinformazione politica in Italia”…

«Ho provato a delinearne una breve storia, dalla fine della Seconda guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino e dal 1992 ad oggi, mettendo a confronto la qualità dell’educazione, il sistema politico, il ruolo centrale dei media e l’avvento delle tecnologie digitali. Incrociando questi dati sembra emergere una lettura della storia d’Italia non convenzionale, che pone in rilievo l’importanza di ricostruire la democrazia attorno all’educazione per attenuare le disuguaglianze sociali e territoriali».

Parla anche dell’ultimo trentennio.

«In questi ultimi decenni, per ottenere il consenso si è accentuato in modo determinante il ruolo dei media e dei social, in corrispondenza del ritiro della politica dai territori. Pertanto, in Italia come nelle altre parti, si tende a un consenso emotivo piuttosto che a un consenso razionale. E questo ribadisce ancora una volta la necessità di aumentare la qualità dell’istruzione pubblica».

Ritorna quindi insistente il richiamo all’educazione, ovvero al sistema scolastico…

«A partire dal Sessantotto, ma ancora di più in maniera determinante dalla fine degli anni Novanta, si sono abbattute sul nostro Paese riforme scolastiche e universitarie che invece di migliorare, hanno finito, seppur a volte con le migliori intenzioni, con il peggiorare in maniera consistente la situazione. Si è quindi materializzata una celebre affermazione di Aldo Moro: “É possibile fare meglio, ma è ancor più facile fare peggio”».

Infatti, c’è bisogno di interventi di sistema non di iniziative di dettaglio.

«Oggi si ritorna a parlare di merito e si riflette sull’uso delle tecnologie nelle scuole che se non ben conosciute alimentano quella “generazione ansiosa” i cui problemi sono evidenziati lucidamente da Jonathan Haidt. In tale quadro, può assumere certamente rilievo il protocollo d’intesa sulla sicurezza informatica che si sta per definire tra il Ministero dell’Istruzione e del Merito e l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale per favorire lo studio fin dalle elementari dei rischi della Rete, in modo da poter cogliere le straordinarie opportunità di conoscenza che il web consente. Secondo me, il ministro Giuseppe Valditara sta affrontando due temi strutturali».

Lei è un esponente della pedagogia contemporanea, con uno sguardo che spazia dalla comunicazione all’intelligence. Proviamo a sintetizzare?

«Oggi non possiamo entrare in aula per insegnare senza avere cognizioni di neuroscienze, di genetica, di linguistica, di intelligenza artificiale, di comunicazione efficace, di Intelligence. Dobbiamo infatti aggiornare rapidamente i saperi della pedagogia, ibridandoli in tutte le direzioni. Gli attuali strumenti rappresentano in gran parte armi spuntate ma soprattutto il linguaggio che noi pedagogisti utilizziamo molto spesso è ad una siderale distanza dalla realtà. Bisogna quindi fare attenzione quando si scrive un testo di pedagogia perché orienta la comprensione del mondo di chi è chiamato a insegnare».

Riusciamo a individuare dei segnali di speranza?

«Certamente, potrebbero essercene tantissimi. Non a caso, come ricorda Eric Fromm, “la speranza è l’unica rivoluzione possibile”. Bisogna rompere gli argini per fare emergere le innumerevoli potenzialità che le scuole e le università italiane esprimono in diversi settori. E non dimentichiamo mai che, pur con tutti i problemi, l’Italia è uno degli stati più industrializzati del mondo e soprattutto è una indiscussa potenza culturale. Quindi, definire una “pedagogia della nazione” potrebbe essere la scelta vincente».

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