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May 15 2018
La legge italiana sull'aborto risale al 22 maggio del 1978. Sono perciò trascorsi 40 anni esatti dalla data a partire dalla quale diventò legale per le donne italiane l'interruzione volontaria della gravidanza. Nell'Unione Europea sono rimasti solo due paesi nei quali l'aborto è ancora vietato in quasi tutte le circostanze, Malta e Irlanda, ma quest'ultima si pronuncerà con un referendum il prossimo 25 maggio e molti scommettono che vincerà il fronte del sì alla legalizzazione.
Da noi, dicevamo, l'aborto è legale da 40 anni, i cittadini furono chiamati a confermare la legge tre anni dopo, il 17 maggio del 1981, con un referendum abrogativo, e si espressero in favore del suo mantenimento. Il fatto che abortire sia legale non significa però che sia agevole farlo: come sappiamo la stragrande maggioranza dei medici in Italia ha scelto l'obiezione di coscienza, quindi per una donna non è facile esercitare il proprio diritto all'interruzione di gravidanza.
Oltre agli ostacoli oggettivi all'esercizio di questo diritto, vi è poi il pesante fardello del giudizio di quanti non sono d'accordo con quello che la legge consente e ritengono che la vita dell'embrione valga quanto quella della donna. Non è un mistero che in un paese cattolico come il nostro siano parecchie le voci che periodicamente si fanno sentire per esprimere il proprio dissenso sull'argomento.
L'ultimo episodio è quello dei manifesti comparsi a Roma, in occasione della "marcia per la vita" organizzata nella capitale per sabato 19 maggio, nei quali sta scritto a lettere cubitali che l'aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo. Segue l'hashtag #stopaborto. La campagna, che non si limita ai manifesti stradali, ma prosegue a deliziare gli utenti online sui social, è a cura di CitizenGO, che si definisce una "comunità di cittadini", fondata in Spagna, il cui scopo dichiarato è quello di "promuovere il rispetto in tutti i contesti della dignità umana e dei diritti che scaturiscono da essa".
Tra questi il loro sito elenca al primo posto "Il diritto alla vita, dal concepimento alla sua fine naturale", quindi niente aborto né eutanasia, ovviamente; il diritto "a glorificare il proprio Dio in privato e in pubblico, individualmente o in gruppo, secondo la propria legittima coscienza", e poi "il diritto al matrimonio, inteso come unione tra un uomo e una donna, e all'educazione dei figli", quindi astenersi coppie di fatto, omosessuali ecc.
Al quarto posto c'è anche il "diritto di pensare, agire o astenersi da determinate azioni secondo i dettami della propria coscienza", il che sembrerebbe lasciare uno spiraglio per tutte le donne che decidono di ricorrere all'interruzione di gravidanza, oppure che non vi farebbero ricorso ma credono che le donne debbano essere libere di farlo. Invece evidentemente no.
Per capirci si tratta degli stessi attivisti che sbraitano contro la "teoria Gender", con una campagna che sostiene che "i bambini sono maschi, le bambine sono femmine" e "la natura non si sceglie". In sostanza non vogliono che si affronti in alcun modo il tema dell'omosessualità a scuola e la chiamano una campagna di libertà.
«È iniziata oggi una nuova orribile campagna di disinformazione contro le donne da parte di organizzazioni estremiste che associa l’aborto al femminicidio». Commenta così la senatrice del PD Monica Cirinnà, relatrice della legge sulle unioni civili che porta il suo nome. «È necessario un immediato intervento delle istituzioni, a partire dall’Autorità delle Comunicazioni, per rimuovere subito i manifesti e per fermare la diffusione di false informazioni». Per Cirinnà la campagna «si basa, infatti, su assunti completamente infondati. Le interruzioni di gravidanza in Italia sono tra le più basse in Europa e in costante calo da dieci anni. Accostare, poi, un diritto delle donne a una violenza come il femminicidio è quanto di più disgustoso possa essere fatto».
Insomma, un conto è dire che si è contro l'aborto, un conto è sostenere che tutte le donne che interrompono la gravidanza sono colpevoli di femminicidio. Filippo Savarese, direttore delle campagne di CitizenGO, si sente sotto attacco: «è in atto il tentativo di censurare e silenziare chi afferma la verità sull’aborto, che sopprime la vita di un bambino e ferisce gravemente quella della donna. Rivendichiamo il diritto di opinione ed espressione tutelato dalla Costituzione. Negli ultimi anni - prosegue - le istituzioni hanno denunciato con sempre maggior forza il fenomeno dei "femminicidi" e della violenza sulle donne, ma ci si dimentica di dire che la prima causa di morte per milioni di bambine (così come di bambini) nel mondo è l’aborto, che provoca anche gravissime conseguenze psicologiche e fisiche per le donne che lo praticano».
Diciamo innanzitutto che erano i metodi alternativi e casalinghi, ai quali si faceva ampiamente ricorso prima che l'aborto diventasse legale, a esporre davvero la donna a un grave pericolo. Certo è poi che, per la donna che vi ricorre, l'interruzione di gravidanza non è una passeggiata, un modo facile per liberarsi velocemente di un fastidio. Al contrario rimane una scelta difficile a volte dolorosa, certo mai fatta in maniera avventata.
Se lo scopo della campagna è quello di toccare le coscienze e stimolare una riflessione, la vera domanda da porsi è: quante delle donne che erano sul punto di fare questa scelta saranno state dissuase dalla vista di questi cartelloni?
«È necessario che, su temi così delicati e dolorosi, nessuno spazio venga concesso alla mistificazione - conclude Cirinnà. Mi aspetto che davanti a un’azione così culturalmente grave tutto l’arco parlamentare, ad iniziare dalle forze che intendono costituire il prossimo governo e da tutte le donne presenti in parlamento e nelle istituzioni, vogliano difendere una legge dello stato che garantisce libertà delle donne, indipendentemente dalla propria morale».
Quindi ricapitoliamo, le donne sono quelle che portano il peso di una decisione così difficile, sono giudicate quando decidono di abortire e ostacolate nel farlo dalla mostruosa penuria di personale medico disposto a dare attuazione alla legge 194. A questa lista di delizie si aggiunge l'ennesimo sberleffo: l'accusa di femminicidio.
Vietare campagne come questa, come era successo all'inizio di aprile quando era stato rimosso un altro maxi cartellone affisso sempre a Roma, questa volta a cura del movimento ProVita, con la foto di un embrione e la scritta: "tu sei qui perché tua mamma non ti ha abortito", è non solo giusto ma necessario. Per difendere il diritto delle donne a scegliere se interrompere la gravidanza, nel rispetto di quanto stabilisce una legge dello Stato, confermata dal voto di un referendum popolare.
Se i cittadini di CitizenGO e gli attivisti di ProVita sono contro l'aborto, sono liberi di esprimersi in tal senso, una libertà di espressione che nel nostro paese è tutelata. Accusare di assassinio le donne che esercitano un proprio diritto è viceversa inaccettabile. Al numero tre della famosa lista dei diritti che quelli di CitizenGO si fanno un punto d'onore di difendere c'è "Il diritto al rispetto di ogni singolo essere umano, della sua dignità e della sua reputazione": la prossima volta che saranno colti dall'irrefrenabile impulso di stampare dei manifesti e tappezzare la città, forse è meglio che rileggano il proprio decalogo.
Per fortuna gli anticorpi contro l'intolleranza sono già al lavoro e hanno prodotto, oltre a moltissime reazioni sdegnate, anche qualche bel meme del manifesto incriminato. Per esempio quello che ha così modificato la scritta: "Il patriarcato è la prima causa di femminicidio nel mondo". Immancabile l'hashtag di accompagnamento: #stopmedioevo.