Margherita Agnelli e il tesoro conteso

Pubblichiamo, dopo quella dello scorso numero di Panorama, la seconda parte de "La Contessa del Lago", un inedito ritratto di Margherita Agnelli. La racconta chi l’ha conosciuta meglio degli altri per un lungo periodo in qualità di procuratore speciale incaricato di varie «missioni» non solo in Italia, l’avvocato Roberto Cattro, scomparso tre anni fa. Il mémoire è tratto da uno dei capitoli del nuovo libro di Gigi Moncalvo dal titolo "Agnelli - The Italian Royal Family", pubblicato da Vallecchi Firenze editore, in uscita a fine ottobre. Nella precedente puntata, la figlia di Gianni Agnelli è stata descritta nei suoi aspetti meno conosciuti: pregi, difetti, contraddizioni, debolezze, ripensamenti, timori, diffidenze, amicizie. Con l’aggiunta di episodi relativi ai rapporti con il primogenito John Elkann che possono far meglio comprendere le ragioni della guerra giudiziaria in corso dal 2004 per la «spartizione» del patrimonio di Gianni Agnelli prima e di Marella poi, un’eredità di cui la figlia dell’Avvocato si sente «defraudata».

Una parte a dir poco difficile da capire nella mia esperienza di lavoro accanto a Margherita è il suo rapporto con Princesse Marella, sua madre. La chiusura di Margherita era totale, irremovibile, talvolta sembrava inspiegabile. Anche accettando la tesi che Princesse, ai tempi della morte dell’Avvocato, fosse stata manipolata dalla Volpe e dal Gatto, così Margherita definisce Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, nel tempo le cose si erano trasformate. La morte di Gianni, l’ultimo vero Re d’Italia, aveva senz’altro liberato e incatenato allo stesso tempo tutti coloro che erano rimasti. Tutti erano stati liberati da una guida che difficilmente ammetteva repliche e obiezioni, ma anche incatenati al permanere di equilibri economici finanziari che per nessuna ragione potevano essere messi in discussione, pena il declino della dinastia. È di fronte alla necessità di mantenere tali equilibri che vanno lette, secondo me, le divisioni delle patrimonialità lasciate da Gianni Agnelli in tutto il mondo, quantità di beni e denaro di cui, alla stregua degli iceberg, ai popoli è concessa la vista solo della punta. Anche se, come in questo caso, la punta può essere grande come il monte Everest. Forse è tempo perso fantasticare e andare alla ricerca di quello che, in ogni caso, rimarrà sommerso.

Ma, dicevo, le cose si erano trasformate e Princesse Marella, in qualche modo, non era rimasta estranea al ripensamento di fatti, circostanze e atteggiamenti del passato che avevano contraddistinto la vita familiare. Molti dettagli lo rivelavano: sempre si informava su come stesse la figlia, con molta discrezione, attraverso terze persone che sapeva avere dei contatti.

Questa ricerca di notizie, lo ammetto, mi inteneriva un poco. Tante volte esortai Margherita a non lasciare cadere nel vuoto questi tentativi di riavvicinamento. E, a causa del fatto che era lei la figlia, spingevo perché rompesse gli indugi e andasse a trovare l’anziana madre. Oltretutto le rispettive residenze in Svizzera non erano lontane. Ma, anche quando Princesse svernava nel suo riad in Marocco, l’occasione di un rendez-vous poteva essere colta con un breve viaggio. «Mi parla solo dei suoi cani e di altre cose che non mi interessano» ribatteva Margherita alle mie insistenze, «oppure fissa a lungo e non distoglie lo sguardo da un programma in tv...».

Le spiegavo che un genitore cerca sempre di non urtarsi con un figlio: per questo, talvolta, la scelta di non affrontare un argomento non insidioso è un modo per evitare discussioni o contrasti. «E poi Yaki non vuole che io incontri mia madre» aggiungeva Margherita. «Ha persino dato ordine alla sua infermiera di non darmi informazioni sulla sua salute nel periodo in cui era ricoverata in clinica per una polmonite».

In autunno, il 26 ottobre, Margherita compie gli anni. Ho capito fin dalla prima di queste ricorrenze che non ama molto gli auguri. Non mi ringraziò. Capii l’antifona, e quella rimase l’unica volta che glieli feci. Per il compleanno successivo a Margherita arrivò un regalo da Princesse Marella.

La figlia lo aprì davanti a me: era una splendida borsa in pelle di Loro Piana, marrone, con un biglietto di auguri scritto con evidente grande sforzo che rivelava la mancanza di energia e lucidità. Lei richiuse seccata la scatola, me la porse dicendomi: «La riporti a Torino». Dato che esitavo e finsi di dimenticarla in casa, Margherita uscì in giardino, consegnò la scatola alla persona che guidava la mia auto e ripeté ancora più nettamente la sua disposizione. Rimasi sbalordito, anche perché non aveva neppure letto il biglietto. Non ebbi mai il coraggio di restituire a una signora di quasi novant’anni il regalo rifiutato dalla figlia. Il giorno dopo Margherita mi chiese se avessi riportato il regalo. Risposi: «No». Mi disse: «Per ora lo tenga lì. Poi le farò sapere». Sto ancora aspettando. Il problema di fondo era rappresentato dalla tendenza a parlare sempre di denaro, anche se, in qualche modo, gli accordi firmati avevano sancito una apparente reciproca soddisfazione tra madre e figlia.

Sui patti del 2004 si è letto e scritto tantissimo a proposito del suo perenne agitarsi facendo immancabilmente conoscere la sua scontentezza per gli accordi a suo tempo raggiunti. Non c’è dubbio che Margherita fu seguita male da qualche avvocato e, inoltre, ha sempre avuto il dono di firmare capendo limitatamente ciò che sottoscriveva. A un certo punto ottenne un paio di pareri da seri professionisti elvetici sulla possibilità di far dichiarare nulli quegli accordi.

Va precisato che uno dei due giuristi sottolineò con chiarezza il rischio rappresentato dall’abuso del diritto che avrebbe potuto inficiare una pur apparentemente legittima richiesta di nullità degli accordi. La logica non sfugge: dopo quasi un ventennio di comportamenti indicati da un patto o da un accordo, è un bel busillis poterne chiedere la nullità. Sulla base di quei due pareri e mostrando ancora una volta la sua consueta leggiadria, Margherita decise che senza attendere sentenza alcuna avrebbe potuto liberamente cominciare ad agire. Sulla base di ciò, sospese il versamento della rendita di circa 600 mila euro mensili che dal 2004 erogava a Princesse Marella, in virtù degli accordi del 2004. La misi in guardia avvertendola che quella sua decisione unilaterale non aveva alcun senso. E le riportai le esortazioni del professor Lombardini, legale di Princesse: invitava a ricordare che la rendita da versare a Donna Marella era garantita da importantissimi quadri che lei aveva avuto in pegno, proprio in vista dell’eventualità di mancati pagamenti del vitalizio concordato. Margherita adora coloro che le danno ragione quando vuole fare la guerra. E alcuni avvocati intorno a lei sostenevano che i Torinesi non avrebbero osato vendere quei quadri. Non so i Torinesi, ma gli Svizzeri sì. Infatti, il professor Lombardini, dopo aver atteso alcuni mesi, alla fine dispose che le preziose tele fossero messe in vendita da una nota casa d’aste internazionale. Venne convocata d’urgenza una riunione a Ginevra, era un sabato mattina, lo ricordo bene. Gli stessi avvocati che avevano sostenuto la validità del gesto di Margherita proposero una serie di azioni per bloccare la vendita.

Quei consigli facevano quasi sorridere, ma sempre molto meno delle parcelle dei legali. Al termine della riunione, venne chiesto il mio parere: «Oggi è sabato» dissi, «e non si può fare. Aspettiamo lunedì per pagare subito i sei mesi dovuti alla Principessa, magari anticipando anche i versamenti dei ratei successivi, anche per fermare sul nascere eventuali richieste degli interessi». Margherita fece così e quei bellissimi dipinti rimasero di sua proprietà. Quando li inventariai alcuni mesi dopo a Zurigo rimasi semplicemente senza parole. Ventisei dipinti, da Francisco Goya a Pablo Picasso, da Egon Schiele a Gustav Klimt, e via di questo passo per una valutazione complessiva come base d’asta di circa 50 milioni di dollari. Anche se il valore effettivo del solo Picasso, l’Arlequin, ammontava a 85 milioni. L’aspetto incredibile è che, in quel momento, servivano solo ad abbellire smisuratamente le fredde lastre in metallo del cupo caveau di Zurigo dov’erano racchiusi. Uno dei grandi punti interrogativi sulla parte dell’eredità dell’Avvocato rimasta sconosciuta alla sua erede può essere intitolato «tesoro artistico». La Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli che racchiude al Lingotto a Torino diversi capolavori, che sono e restano di proprietà della famiglia, ne è una prova parziale. Aver creato, con i due coniugi in vita, una pinacoteca a cui conferire tesori artistici per molte centinaia di milioni (va detto che la stima reale potrebbe lasciare senza parole) ha rappresentato un geniale sistema per conservare un’immensa patrimonialità in seno ad una famiglia bypassando la problematica che si sarebbe inevitabilmente presentata riguardo alle tasse di successione.

Ma, il pur immenso valore della pinacoteca non eguaglia la ricchezza del patrimonio artistico racchiuso nelle case che, dopo la morte di Marella, sono entrate a pieno titolo nella proprietà e nel possesso di Margherita. Prendiamo ad esempio il principesco appartamento sul colle del Quirinale a Roma. Nella sola hall di quella residenza due Renoir precedono un Degas, seguiti da un Sutherland. Tutti i dipinti fronteggiano sculture di Marini, Giacometti, Valadier, Cigoli, persino una statua raffigurante l’Iron Bastet proveniente da Tebe (205 avanti Cristo). Dentro la casa si susseguono preziosità degne di palazzi reali o dei maggiori musei del mondo.

Nella camera di Princesse Marella adagiati per terra ci sono due preziosi cani in terracotta policroma, arte veneziana epoca Luigi XIV, mentre due grandi aquile in porcellana di Cina con montatura in bronzo dorato epoca Luigi XVI li osservano dall’alto di due mobili in mogano anch’essi Luigi XVI, con decori cesellati in bronzo dorato. L’immenso salone, grazie alle sue vetrate sulla sommità del più alto dei sette colli - talmente elevato che anche il cupolone di San Pietro, pur nella sua bellezza, non è così impressionante - offre una vista indescrivibile specie al tramonto. E allinea preziosità artistiche degne delle più preziose collezioni esistenti al mondo. Il camino in marmo bianco e rosso, con rosone centrale e figure in rilievo, è affiancato da alari in bronzo dorato Luigi XV raffiguranti tritoni che suonano le trombe. Si passa quindi a un grande tavolo basso in travertino e poi via via ad altri tavoli tondi di varie dimensioni tutti molto armonici disseminati nella vastità del salone e circondati da poltroncine e divani in naturalissimo midollino ma arricchiti di stoffe spettacolarmente eleganti e raffinate.

Un autentico tripudio sono gli oggetti che adornano e arricchiscono i vari tavoli. Un obelisco in porfido del 1800, perfetta riproduzione dell’obelisco di Piazza Montecitorio. Una colonna in marmo verde con in cima la vittoria alata creata da Giuseppe Valadier agli inizi del 1700. Due colonnine in bronzo dorato placcate in lapislazzuli (Roma, 1700). Due bufali in giada verde dell’epoca Ming ognuno pesante circa 15 kg il cui valore si può esprimere solo in milioni. Un rinoceronte in bronzo con base in lapislazzuli Luigi XVI. Un piccolo cavallo in bronzo di Scuola italiana del 1500. Alcuni piccoli elefanti in oro con guerrieri della fine del secolo XVI. Un numero ragguardevole di strumenti di navigazione in bronzo, astrolabi in ottone, un cadran solaire, una meridiana universale francese del 1700. Un servizio da toeletta appartenuto a Carlo II in argento dorato composto da una decina di preziosi pezzi.

Tra i dipinti del salone troviamo un grande olio di Gustave Moreau, Oreste e le Erinni (1870), quasi custodito ai suoi piedi da una ammirevole scultura in bronzo di Marino Marini, Cavallo, alta oltre un metro. Poco distante c’è una rara piccola scultura in marmo bianco di Pietro Cascella.

Lì accanto ecco un’opera di Giacomo Balla, Fiore Futurista, in legno dipinto. Il suo stile contrasta con un busto di bronzo dorato su base di marmo bianco raffigurante Esculapio, che risale all’epoca dell’Impero Romano. Proseguendo in questo prezioso itinerario artistico, ecco la Grande Pattinatrice di Giacomo Manzù, scultura in legno (di 230 cm) che precede Ragazza seduta, opera in bronzo di Marini. Entrambe introducono Nu, les Bras Croisès, opera del 1945 di Pablo Picasso.

Tralasciando altri oggetti si entra nella biblioteca che allinea un ritratto di Filippo Tommaso Marinetti eseguito da Carlo Carrà, un preziosissimo disegno del maestro dell’astrattismo Paul Klee, dal titolo Ein Vogel. Ecco poi una scultura in bronzo del XVI secolo, Cavallo, un’opera di Pietro Tacca, lo scultore della Scuola Carrarese allievo del Giambologna, che lavorò soprattutto per la corte di Madrid. È invece opera di Constantin Brâncusi, lo scultore romeno naturalizzato francese considerato uno dei più importanti e influenti scultori del XX secolo, un bronzo dorato dal titolo La Muse Endormie del 1910 che contrasta con Pro e Contro scultura in pietra di Finale opera di Cascella. Una delle pareti è dominata da Concetto Spaziale rarissima tela di Lucio Fontana laccata a tempera rossa e con…E qui, lasciando il racconto in sospeso, termina il mémoire di Roberto Cattro. Non è riuscito a completarlo per un improvviso arresto cardiaco all’alba del 5 dicembre 2021 a Torino. Il suo corpo è stato trovato nella casa in collina dove abitava, a poche centinaia di metri dalla villa di John Elkann, una residenza in Strada Ponte Isabella messa a disposizione da Maria Angela Francheo, console di Giordania a Torino.

Con quella rappresentanza diplomatica Cattro da tempo collaborava nel settore petrolifero. Sul Corriere della Sera un necrologio diceva: «Margherita e Serge de Pahlen si uniscono al dolore della famiglia per la scomparsa. Il suo ricordo resterà sempre vivo tra noi». In un altro necrologio il «Gran Maestro, il Consiglio Magistrale, le Nobil Donne e i Cavalieri della World Confederation del Sovereign Order of Saint John of Jerusalem» lo ricordano come loro «Confratello e Priore». Tra i suoi oggetti personali stranamente sono scomparsi il suo pc, molti appunti e documenti ma soprattutto i faldoni con le schede e le foto della Collezione Agnelli. E anche la famosa borsa di Loro Piana marrone. È davvero poco credibile che Cattro non avesse conservato una copia di questo prezioso archivio da lui messo a punto. Purtroppo, a quel tempo, il suo fidato e leale Roberto Maida non lavorava più per lui.

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