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May 24 2016
"La guerra, ogni guerra, è un moltiplicatore di lutti e sofferenze". Così il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha aperto il suo intervento ad Asiago per la commemorazione della Grande Guerra nel giorno dell'anniversario dell'ingresso dell'Italia nel conflitto, il 24 maggio del 2015.
"È stata la pace e non la guerra ad assicurare stabilità e progresso, è stato il dialogo non lo scontro a permettere le grandi conquiste civili ed economiche di questi 70 anni", ha aggiunto. "Sono state le intese, le alleanze non aggressive, le unioni sovranazionali e non le chiusure e le barriere a garantire al nostro paese e agli altri la libertà e il benessere".
E ancora: "Raccogliere quel sogno, quel grido silenzioso per un futuro di pace, benessere e diritti che ci arriva con forza le nuove generazioni, è oggi il miglior modo per rispettare tanto sangue versato. Bisogna raccogliere quel sogno - ha aggiunto - e oggi sono qui per questo, con i rappresentanti del Governo, del Parlamento, della Regione Veneto, i sindaci, affinchè la tragedia di una guerra fratricida non abbia mai più a ripetersi".
"Le grandi sfide, imponenti, che oggi il mondo si trova davanti - il terrorismo, l'emigrazione, i cambiamenti climatici, la lotta alla fame e alle malattie, lo sviluppo - si vincono tessendo collaborazione e costruendo ponti. Servono comune intelligenza, unità di intenti. Vanno ricercati con ostinazione obiettivi condivisi e politiche comuni a fenomeni globali. È impossibile dare risposte soltanto nazionali, ignorarlo sarebbe illusorio e pericoloso".
"Senza ideali e sogni si perde lo slancio vitale e lentamente finiscono per prevalere la paura, il sospetto, egoismi, la tentazione di rinchiudersi nei recinti di malintesi interessi nazionali".
"La classe dirigente europea nel secondo dopoguerra, a differenza delle precedenti si dimostrò all'altezza del compito immane della ricostruzione, economica e morale, di un continente
distrutto e sgomento. Ci riusci' operando con lungimiranza, tenendo insieme visione e pragmatismo".
Ma ecco la versione integrale del discorso del Presidente:
Rivolgo un saluto al Ministro della Difesa, ai rappresentanti del Parlamento, a tutte le autorità presenti, al Sindaco di Asiago, a tutti i sindaci che rappresentano qui le popolazioni che qualche generazione addietro ha sofferto gli eventi drammatici che stiamo ricordando.
Un saluto a tutti i presenti, cittadini di Asiago e dell'Altipiano.
Avverto un sentimento di grande coinvolgimento generale nel prendere la parola qui ad Asiago, capoluogo degli Altipiani, che, cento anni fa, furono il teatro di una delle più grandi e sanguinose battaglie in cui fu impegnato l'esercito italiano nella Prima Guerra Mondiale.
Ho appena visitato il grande ossario dove riposano, uno accanto all'altro, i corpi di quasi 55 mila soldati di entrambi i fronti, provenienti da molti, pur se non da tutti, i cimiteri sparsi nell'area dell'Altipiano.
Il numero, molto alto, prevalente, dei caduti non identificati ci racconta la crudezza di un conflitto combattuto con armi distruttive e micidiali.
Al termine di questa cerimonia, porterò una corona di fiori sulla cima dell'Ortigara, il Calvario degli alpini, uno dei tanti splendidi monti, divenuti allora luoghi di dolore, contesi palmo a palmo, che narrano storie di coraggio, di eroismo e di sacrificio di migliaia e migliaia di soldati.
In quei terribili mesi di cento anni fa, la bellezza suggestiva di questi luoghi fu trasformata in un paesaggio di distruzione e di morte. L'Altipiano somigliava a un enorme cimitero a cielo aperto per migliaia di italiani, provenienti da tutte le Regioni, e per austriaci, ungheresi, croati, polacchi, boemi, bosniaci, slovacchi; anche russi e ucraini prigionieri. Vi si aggiunsero, verso la fine del conflitto, anche francesi e inglesi.
Di loro, oggi, resta un nome scolpito sul marmo. Per molti altri, neppure quello. Eppure ognuno di loro era una persona con un suo mondo, unico e irripetibile. Ciascuno portava con sé un bagaglio di esperienze, speranze, affetti, progetti per un futuro che non vi sarebbe stato.
Erano cristiani - cattolici, protestanti, ortodossi - musulmani, ebrei, non credenti. Contadini, nobili, operai, borghesi. Soldati di ogni estrazione che partecipavano alla guerra con motivazioni e stati d'animo differenti: consenso entusiasta, forte senso del dovere, rassegnazione, fino a forme di rivolta covate in silenzio.
Uomini diversi per provenienza e per mentalità, ma che provavano, nel buio delle trincee e nelle terribili ore in attesa dell'assalto, gli stessi, umanissimi sentimenti: la paura della morte e della sofferenza, la nostalgia degli affetti, il dolore.
Oggi riposano insieme, accomunati dallo stesso destino: quello di morire, nel fiore degli anni, a causa di una guerra crudele e fratricida, che esplose improvvisa nel cuore dell'Europa, lambì i confini della Terra e deviò drammaticamente il corso della storia.
La guerra, ogni guerra, è un moltiplicatore di lutti e di sofferenze.
Nel rendere, doverosamente, onore ai caduti di tutti gli eserciti, prime vittime del conflitto, non possiamo dimenticare gli affanni e i patimenti di tanti rimasti in vita: penso ai numerosissimi mutilati e al loro difficile reinserimento nella società, al gran numero di prigionieri di guerra, che subirono stenti e incomprensione, alle donne vedove e madri, caricate di nuove e pesanti responsabilità, agli orfani, ai tanti genitori sopravvissuti con dolore ai propri ragazzi, ai profughi, alle persone che la guerra ridusse in miseria.
* * *
Il 15 maggio del 1916, come ci ha appena ricordato il professor Pozzato, un massiccio e spaventoso bombardamento con cannoni di grosso calibro dell'esercito austroungarico dava inizio all'offensiva del Tirolo, che passerà alla storia come la Strafexpedition, la spedizione punitiva.
Conrad, capo di stato maggiore dell'esercito imperiale, riuscì a radunare segretamente una massa ingente di uomini e di artiglieria lungo il confine con il Trentino, un fronte ritenuto dai comandi italiani non particolarmente a rischio e sul quale non erano preparati.
Iniziava così, rapidissima, l'avanzata della fanteria austroungarica che, uno dopo l'altro, conquistò i capisaldi italiani. I nostri soldati, nonostante l'accanita resistenza, furono costretti ad arretrare molto.
Dal forte Vezzena piovvero bombe su Asiago e Gallio, ridotte a un cumulo di macerie. La tempesta di fuoco proseguì senza tregua e rase al suolo interi paesi: Arsiero, Canove, Foza, Mezzaselva, Roana, Rotzo, Tresché, Valstagna, Velo d'Astico. Era la prima volta, dall'inizio del conflitto, che i civili italiani venivano così duramente coinvolti.
Ingenti truppe nemiche dilagavano dal Trentino nel territorio veneto. La guerra per l'Italia mutava di colpo: da offensiva diveniva difensiva, provocando grande sgomento.
Le popolazioni degli Altipiani furono sfollate in modo disordinato. Per i profughi iniziò un lungo calvario.
Incrociarono, in quei giorni, la Brigata Sassari, oggi impegnata nell'importante missione in Libano. Emilio Lussu, volontario, capitano di quella gloriosa Brigata, descrisse così l'incontro con la colonna di sfollati che abbandonavano le loro case: «I contadini allontanati dalla loro terra erano come naufraghi. Nessuno piangeva, ma i loro occhi guardavano assenti. Era il convoglio del dolore».
Di sfollati se ne conteranno più di 75 mila.
Questo dei civili è un capitolo di storia a parte, fatto di dolore, di incomprensione, di miseria e, per lunghi anni, trascurato dalla memoria storica.
Molto difficile, in particolare, fu la condizione degli appartenenti alla minoranza etnica dei cimbri: erano presenti nell'area dell'Altipiano fin dal II secolo a. C. Parlando una lingua di ceppo germanico, furono guardati con sospetto.
Accanto a queste pagine dolorose, ve ne sono state altre, nobili e confortanti, che riguardano la grande rete di solidarietà messa in piedi da organizzazioni religiose e civili per l'assistenza materiale e morale agli sfollati, supplendo alle carenze di uno Stato interamente concentrato nello sforzo bellico.
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L'avanzata dell'esercito imperiale è veloce. Il 20 maggio gli austro-ungarici investono il settore centrale dell'Altipiano. Il 28 entrano in una Asiago completamente distrutta dai bombardamenti. In altre zone l'avanzata viene fermata o perlomeno rallentata, grazie alla strenua resistenza dei soldati della I armata, che scrissero pagine di abnegazione e di eroismo.
Ma, a fine mese, la linea di resistenza italiana risulta molto arretrata. Se cedesse quell'ultimo fronte gli austriaci dilagherebbero nella pianura padana, prendendo alle spalle il grosso delle armate italiane concentrate sul fronte dell'Isonzo.
Il generale Cadorna, dopo i primi giorni di sbandamento e di incredulità, prepara una efficace contromossa. Sposta uomini e mezzi dal Carso per creare una nuova armata, la V, per difendere la pianura e a rincalzo delle prime linee.
La situazione resta però grave, si teme l'irreparabile. Il 3 giugno cede anche uno degli ultimi baluardi, il Monte Cengio, nonostante l'eroismo dei granatieri di Sardegna, costretti a battersi fino al sacrificio estremo in condizione di assoluta inferiorità numerica.
I comandi italiani chiedono ai soldati di serrare le file, di resistere a oltranza. Proprio su questi monti avvengono i primi episodi della triste e odiosa pratica della decimazione a carico di quei reparti che sbandano di fronte all'avanzata nemica.
La conquista del Monte Cengio, con la sua enorme valenza strategica e simbolica, coincide, però, con l'esaurirsi della spinta offensiva austroungarica.
Conrad tenta ancora il tutto per tutto, ordinando ai suoi di forzare le linee italiane sul lembo più orientale dell'Altipiano, nella zona delle Melette. Trova resistenza da parte italiana e il Comando austro-ungarico è costretto a ordinare la fine dell'offensiva, durata oltre un mese.
La guerra sull' Altipiano non è però finita. Dopo poche settimane comincerà il tentativo da parte dell'esercito italiano di riprendere le posizioni perdute.
Il conflitto continuerà qui fino alla fine della Guerra, con altre grandi battaglie, con disperati e sanguinosi tentativi da una parte e dall'altra di strappare al nemico una cima o un lembo di terra.
Secondo uno studio del dopoguerra, il novantacinque per cento delle abitazioni dell'Altipiano era andato distrutto.
Sono occorsi anni prima che la vita dell'Altipiano, sfigurato anche nel paesaggio, tornasse alla normalità.
Così, nelle pagine di Rigoni Stern, si presentava, al giovane protagonista de "L'anno della Vittoria", il suo paese dopo l'armistizio:
"Niente più era rimasto di quando aveva nel ricordo e che aveva conservato per tanti mesi nella nostalgia dell'anima: non erba, non case, né orti, né il campanile con la chiesa; nemmeno i boschi." E aggiungeva: "I gas, le bombe di ogni calibro, le mitragliatrici in tre anni avevano distrutto anche le macerie, ed era questo che i suoi occhi vedevano e la ragione non voleva ammettere".
Sono numerose le personalità che, a diverso titolo, da una parte o dall'altra del fronte, incroceranno il loro destino con quello delle battaglie combattute negli Altipiani: Giani e Carlo Stuparich, Ernst Hemingway, Carlo Emilio Gadda, Emilio Lussu, Robert Musil, Rudyard Kipling, l' alpinista e cineasta Luis Trenker, i martiri irredentisti Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa. Nomi, nella loro diversità, che rendono plasticamente l'idea di quanto sia stata estesa la portata della guerra nell'Altipiano.
I luoghi, i paesi, i monti circostanti diventarono simboli, nel mondo, di epiche imprese e di sanguinose battaglie.
Scrisse in versi Hemingway:
«Arsiero, Asiago e quanti altri ancora;
piccoli paesi di confine nei giorni dell'anteguerra»
Pur non avendo, per ragioni di età, combattuto nel primo conflitto mondiale, ma nel secondo, il nome di Mario Rigoni Stern è entrato a far parte, a pieno titolo, della storia del Grande conflitto sull'Altipiano. Si deve principalmente ai suoi romanzi, ma anche alla sua paziente e appassionata opera di "recuperante della memoria", di cui è stato magistrale interprete anche Ermanno Olmi. Si deve a questi testimoni, a questi interpreti se le drammatiche vicende che sconvolsero questi monti sono arrivate sino a noi in modo così nitido.
Rigoni Stern, con la sua vita, la sua prosa coinvolgente, con la sua umanità, ha anche rappresentato un anello di congiunzione tra i due conflitti mondiali del secolo scorso. Scrisse nel 2003 in una prefazione a un libro sulla Strafexpedition:
«La Grande Guerra ci appare in tutta la sua importanza, con tutto l'immenso peso che ebbe per i popoli d'Europa e per tutta l'umanità, e anche per farci capire che sui campi di quelle battaglie venne sparso il seme per la Seconda Guerra Mondiale».
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Sulle cause della Grande Guerra sono state scritte migliaia di pagine. Ed è opinione comune, tra gli storici di tutto il mondo, che la volontà di potenza e gli egoismi nazionalisti spinsero gli Stati, lentamente ma inesorabilmente, come su un piano inclinato, verso il baratro del conflitto.
Così scrisse, con grande efficacia, Attilio Frescura, ufficiale interventista e pluridecorato:
«Chi scatena una guerra? Non certo un uomo, detto Re, ma mille forze, ognuna delle quali provoca l'altra, forse anche inconsciamente, e la ingigantisce, come avviene delle valanghe».
Così fu che la guerra, la Grande Guerra iniziò. L'attentato di Sarajevo fu la scintilla. Ma erano mesi, anni, che il cielo sopra l'Europa si andava saturando di gas esplosivi.
Vi fu chi, tra le classi dirigenti, lo alimentò consapevolmente. Chi, invece, lo subì, incapace di trovare uno sbocco. Le voci di pace furono numerose e autorevoli, ma si trovarono ben presto sopraffatte.
Ogni Nazione entrava in guerra con la speranza di ottenere gloria, prestigio, ricchezza, acquisizioni territoriali.
Ogni Stato era convinto che avrebbe velocemente sconfitto il nemico e che dalla sua distruzione avrebbe ricavato enormi vantaggi.
Non fu così. La guerra, durata quattro anni e combattuta senza esclusione di colpi, lasciò ovunque lutti, ferite indelebili, devastazioni morali e materiali.
La Prima Guerra Mondiale non generò pace, non sopì gli antichi conflitti, non risolse le annose controversie. Non concesse benessere economico e prosperità neppure ai vincitori, generando tra le popolazioni sfiducia e risentimento.
La guerra non fu "l'igiene del mondo", ma un morbo letale che infettò Stati e popolazioni.
Molte di quelle stesse classi dirigenti, che non seppero evitare la guerra e, in alcuni casi, la cavalcarono in nome del "Sacro egoismo nazionale", furono travolte dal nuovo ordine politico, economico e sociale venutosi a creare nell'immediato dopoguerra.
Malgrado tanti lutti e tanto dolore, la grande lezione che la Grande Guerra impartiva a governanti e popoli non venne compresa, tragicamente.
Il nuovo ordine mondiale imposto dai vincitori fu, insieme, la premessa e la causa di nuove e ancor più gravi tragedie che avrebbero sfigurato per un quarto di secolo il volto della "civilissima Europa".
Possiamo ben dirlo oggi, volgendo lo sguardo al secolo scorso: è stata la pace, non la guerra, ad assicurare stabilità e progresso.
E' stato il dialogo, non lo scontro, a permettere le grandi conquiste civili, economiche e sociali di questi settanta anni.
Sono state le intese, le alleanze non aggressive, le unioni a livello sovranazionale, e non le chiusure e le barriere, a garantire al nostro Paese, e agli altri, la libertà, la democrazia, il benessere, lo sviluppo.
La classe dirigente europea del secondo dopoguerra, a differenza delle precedenti, si dimostrò all'altezza dell'immane compito della ricostruzione, economica e morale, di un Continente distrutto e sgomento.
Ci riuscì, operando con lungimiranza, tenendo insieme visione e pragmatismo, idealità e concretezza.
Senza visione, senza ideali, senza sogni, la politica si inaridisce, perde il suo slancio vitale. E lentamente finiscono per prevalere la paura, il sospetto, gli egoismi, la tentazione di rinchiudersi nei recinti di malintesi interessi nazionali.
Le grandi, imponenti sfide, che oggi il mondo si trova davanti - il terrorismo, le migrazioni, i cambiamenti climatici, la lotta alla fame e alle malattie, lo sviluppo - si vincono tessendo collaborazioni e costruendo ponti. Servono comune intelligenza, unità d'intenti. Vanno ricercati, con ostinazione, obiettivi condivisi e politiche comuni.
A fenomeni globali è impossibile dare risposte soltanto nazionali. Ignorarlo sarebbe illusorio e pericoloso.
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In queste terre, tra questi monti, cento anni fa, si dissanguava tanta parte della gioventù d'Europa.
In questi decenni, tra le nazioni che si combatterono nelle due guerre, si sono fatte sempre più strada concordia e collaborazione, che hanno generato benessere, opportunità, crescita.
Oggi quei popoli e quelle nazioni, allora in guerra, sono popoli fratelli e nazioni amiche e alleate. Fanno parte di un'Unione che ha posto al centro della propria missione la pace, la democrazia, i diritti, la libertà.
Oggi i nostri giovani non si uccidono più per un palmo di terra, ma viaggiano liberamente per il continente, studiano, si incontrano, dialogano, lavorano insieme, si sposano e mettono al mondo una nuova generazione di figli, figli dell'Europa.
Il momento, per l'Europa e per il mondo intero, non è facile. Vi è il rischio concreto che forze disgregatrici, minacce terroristiche, crisi economiche, flussi migratori, facciano fare pericolosi balzi all'indietro.
Governi, classi dirigenti, forze sociali, intellettuali devono mostrarsi responsabili, lucidi, lungimiranti, all'altezza del compito epocale che grava sulle loro spalle.
Devono anteporre ideali e visione alla ricerca, effimera, del consenso a ogni costo, ottenuto a volte con grandi semplificazioni e con demagogia.
Assicurare un futuro di pace, di benessere e di diritti, è il sogno che ci chiedono, con forza, le nuove generazioni.
Un grido silenzioso - affinché la tragedia di una guerra fratricida non abbia mai più a ripetersi - sale dai tanti cimiteri militari, sparsi qui attorno, sull'Altipiano, come nel resto d'Europa.
Raccogliere questo sogno e quel grido - e sono qui per questo, con i rappresentanti del Parlamento, del Governo, con il Presidente della Regione Veneto, con i Sindaci - è, oggi, il miglior modo per rendere onore a chi è caduto per la sua Patria e per rispettare tanto sangue versato.