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Matteo Modugno: "Dov'è finita la boxe?"

E’ il campione italiano di pesi massimi ma nessuno, addetti ai lavori a parte, ne parla. Era pronto a salire sul ring per il titolo europeo eppure la notizia non era valsa più un paio di righe in un trafiletto della Gazzetta. Dov’è finita la nobile arte della boxe? E’ quello che si chiede Matteo Modugno che a soli 26 anni, e con la cintura di campione in vita, sta pensando di abbandonare la boxe…

Stai scherzando, vero Matteo?

“Non proprio. Forse è la delusione del momento dato che a causa dell’infortunio (Matteo si è rotto una costola in allenamento ndr) non potrò partecipare all’incontro per il titolo europeo…”.

Com’è successo?

“Durante gli ultimi incontri di preparazione un pugno dello sparring mi ha rotto la costola che avevo già lesionato. All’inizio la delusione è stata fortissima ma nella boxe sono cose che capitano. Sono giovane e ancora tra i primi 70 del mondo. Se voglio, avrò l’occasione di rifarmi…”. 

Allora perché pensi al ritiro?

“Fare il pugile professionista in Italia è diventato quasi impossibile. Sempre più spesso mi ritrovo a pensare dove sarò arrivato a 35 anni. A quell’età non potrei di certo reinventarmi e guadagnando le cifre che guadagno ora non potrei vivere di rendita nemmeno per un mese…”.

Il campione italiano dei massimi guadagna davvero così poco?

“Non ho nessuno stipendio fisso ma una borsa per gli incontri. Le visite mediche, il preparatore persino il commercialista me lo devo pagare io. Sono campione in carica, ho difeso il titolo per tre volte eppure guadagno meno di un operaio. Sono riusciti a fare diventare la boxe uno sport per ricchi…”. 

Addirittura…

“Fino a qualche anno fa lavoravo come buttafuori nelle discoteche. Era l’unico lavoro che mi permetteva di “arrotondare” e allo stesso tempo di avere la giornata libera per potermi allenare. Poi per fortuna mi hanno chiamato per fare le World Series con i Milano Thunder. Lì per la prima volta da quando sono professionista ho trovato un ambiente serio: avevo uno stipendio, lo staff medico, le strutture adeguate per potermi allenare. Era le serie A del pugilato”.

Poi cos’è successo?

“Mi aveva richiamato all’inizio di questa stagione ma per questioni burocratiche, una lotta tra l’associazione dilettantistica (che organizza le Olimpiadi ndr) e le leghe professionistiche, c’era il rischio che se avessi partecipato alle World Series non avrei più potuto fare incontri da professionista”. 

Saresti potuto tornare a fare il dilettante… 

“Una volta passati tra i professionisti non si può tornare indietro…”.

Ti sei pentito della scelta?

No. Quando a 19 anni sono entrato per la prima volta in palestra il mio sogno era quello di vestire la maglia azzurra. Una volta raggiunto l’obiettivo mi sono accorto che non faceva per me. Forse ero giovane e poco maturo, ma c’erano anche problemi di tecnica dovuti alla mia stazza…”.

Certo che con una partecipazione alle Olimpiadi (solo i dilettanti possono partecipare alla competizione olimpica ndr) saresti diventato sicuramente più famoso… 

“Se ti riferisci al caso di Clemente Russo è evidente che lui è stato bravo, e capace, di crearsi un personaggio. E’ un bel ragazzo, spigliato, ha fatto bene a farlo. D’altronde il pubblico vuole conoscere il volto di chi combatte…”. 

E per questo che il pugilato professionistico in italia è poco seguito?

“E’ un problema di copertura televisiva e di marketing. Stavo per combattere per il titolo Europeo e nemmeno gli appassionati di pugilato erano a conoscenza dell’incontro”.

Perché accade questo?

“Il livello si è sicuramente abbassato, anche perché chi ha guadagnato dalla boxe negli scorsi decenni si è tenuto gran parte dei soldi invece che investire nei giovani. E così se 15 anni fa i diritti di un incontro costavano un centinaio di milioni di lire oggi non valgono più di tremila euro”. 

Non potrebbe essere che il contenuto violento della boxe non sia più considerato appetibile al grande pubblico…

“Io vedo più violenza in una partita di calcio. Nella boxe c’è un rispetto dell’avversario di molto superiore…”.

Rischiate la vita? 

“No, altrimenti non lo farei. Ci sono stati dei morti ma la boxe non è l’unico sport dove capita, vedi gli infarti nel calcio”…

Non è esattamente la stessa cosa…

“Invece basta guardare i numeri. Certo i pugni non fanno bene certo ma anche i controlli stanno aumentando. Per combattere per il titolo europeo mi avevano addirittura fatto fare una risonanza magnetica con mezzo di contrasto…”.

Sei fidanzato?

“Sì”.

La tua ragazza cosa dice? Sarebbe contenta se tu smettessi di combattere?

“Mi dice solo che ci devo pensare bene e che devo scegliere io per non avere rimpianti e non pensare, magari tra una decina di anni, di non averci provato fino in fondo. Di certo durante gli incontri soffre più di me…”. 

E tu invece? Soffriresti nel caso lasciassi per davvero la boxe?

“Mi mancherebbe l’adrenalina prima dell’incontro. La boxe è come una droga: una volta iniziato non riesci a smettere”.

Ed è uno sport che ti ha dato tanto, soldi a parte…

“Diciamo che ha cambiato la mia vita. Quando sono entrato in palestra a 19 anni pesavo 170 chili. I medici (Metto è seguito da Delta Medica ndr) mi hanno prescritto una dieta a zona, con blocchi bilanciati tra grassi, carboidrati e proteine. In questo modo ho raggiunto il mio peso attuale di 125 chili”.

Sono pochi?

“Non sono tanti per uno alto quasi due metri. Certo la dieta la devo praticare costantemente”.

Quanto ti costa fare tutto questo, guadagnando così poco?

“La dieta la farei comunque perché fare il pugile professionista mi ha davvero educato al cibo. Per il resto la boxe mi costa tanto sudore, due allenamenti al giorno e qualche delusione,come l'infortunio, ma non vorrei essere costretto a smettere. Ecco perché sto lanciando un allarme…”.

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