News
October 07 2022
Nella sanità pubblica c’è un nuovo business su cui puntare per arricchirsi: è quello dei medici a gettone delle cooperative private. Queste figure sanitarie vengono chiamate dalle Asl per sopperire alla mancanza di personale sanitario negli ospedali. Una carenza dovuta al fatto che il servizio sanitario nazionale preferisce pagare dei medici esterni ad ore piuttosto che assumerne di nuovi facendo guadagnare alle cooperative una vasca di soldi. Milioni di euro che finiscono nelle tasche di imprenditori (spesso medici) che arruolano e a volte formano i cosiddetti medici gettonisti pagati anche 10 volte di più dei loro colleghi ospedalieri assunti in pianta stabile. Un mercato cresciuto a dismisura soprattutto durante il Covid e che sta smantellando il servizio pubblico.
Infatti il numero dei medici che preferiscono lavorare a gettone è in forte aumento perché si lavora di meno e si guadagna di più. «Nella mia Asl un medico gettonista freelance guadagna 1440 euro (lordi) per 12 ore di turno. Io con una specialità, un dottorato ed un titolo universitario di ricercatore, lavoro 170 ore al mese e guadagno 3100 euro se mi ammazzo di notti. Dovrei licenziarmi e fare 10 turni mensili. È vergognoso, ripugnante e offensivo per la professione soprattutto per chi durante il Covid non ha mai mollato» ci racconta un medico ospedaliero.
Effettivamente in questa Asl è stata pubblicata una manifestazione di interesse dove si offrono circa 350mila euro per 270 turni ossia 1440 euro a turno. In più a dare una connotazione che sembrerebbe fuori dalle regole della pubblica amministrazione è che il costo sostenuto per i medici gettonisti è molto difficile da quantificare perché non è inserito nel bilancio del personale sanitario (dove c’è un tetto massimo che non si può superare) mentre si trova nella voce beni e servizi e quindi non compare. Ma di sicuro si parla di milioni e milioni di euro.
Ad esempio la Medical Line Consulting Srl con sede a Roma nel 2020 ha fatturato circa 13 milioni di euro con una spesa per il personale di oltre 400mila euro triplicando quasi le entrate rispetto al 2018. Mentre altre società che si sono costituite da poco (perché hanno intuito l’affare) continuano a mandare mail a pioggia ai medici ospedalieri chiedendo loro la “disponibilità a collaborare come libero professionista da integrare in Pronto Soccorso”.
Inoltre a pesare sul servizio pubblico non è solo il costo di questi medici ma anche una preparazione a quanto pare insufficiente: «Senza generalizzare ma oggi la maggioranza dei medici delle coop sono colleghi che non hanno titolo per lavorare in Pronto Soccorso. Alcuni non sono specialisti, altri sono neolaureati, pensionati o gente che tutta la vita ha fatto altro e che oggi improvvisamente diventa valida per fare il nostro lavoro, che come tutte le specialità mediche è difficile e complesso e non si impara in poche ore» commenta il dott. Fabio De Iaco presidente nazionale SIMEU ((Società italiana medicina dell'emergenza urgenza).
Quali sono quindi le garanzie di qualità offerte dai medici delle cooperative?
«Il paziente che entra in Pronto Soccorso non lo sa ma sta facendo una scommessa al buio. Chi si occuperà di lui? Un medico qualificato e inserito nell’ospedale o un “gettonista” la cui efficacia non è garantita? Le faccio un esempio: la gestione di un ictus oggi è particolarmente complessa e include sia procedure interne all’ospedale fortemente legate alla rapidità di intervento, sia spesso esterne all’ospedale, verso un centro di riferimento che può offrire trattamenti risolutivi di secondo livello. La criticità sta nell’organizzazione e nell’integrazione tra i vari elementi. Ma come fa secondo lei un medico arrivato oggi pomeriggio per lavorare questa notte a conoscere e applicare queste procedure? E non dimentichi in tutto questo, che alla fine l’unico responsabile clinico è il direttore, che spesso neppure conosce il medico che sta lavorando nella sua struttura».
Cosa ne pensa del mercato delle cooperative di medici in Pronto Soccorso?
«Stiamo assistendo non solo a una privatizzazione progressiva e selvaggia ma soprattutto allo smantellamento di un impianto organizzativo e professionale che dovrebbe essere garanzia di continuità del servizio, di ricerca della qualità e di governo delle strutture. Con quello che sta accadendo è sempre più difficile o addirittura impossibile stabilire dei parametri, porre degli obiettivi, costruire percorsi e protocolli. Per farlo avremmo bisogno di uno staff quantitativamente adeguato e del tempo per comunicare e formare il personale. Mentre i Direttori impiegano gran parte del tempo lavorativo a garantire semplicemente la copertura dei turni a rispondere a proteste dell’utenza o a richieste di chiarimenti delle direzioni. Non c’è più né lo spazio né la possibilità di attuare quel “governo clinico” che dovrebbe essere l’essenza della nostra attività, la ragione della nostra presenza in servizio. Anzi gli stressi Direttori sono sempre più spesso coinvolti nella turnazione quotidiana. In pratica paghi un primario e gli affidi delle funzioni cruciali, ma alla fine hai solo un medico turnista stressato che nelle ore dei turni continua a rispondere al telefono e alle mail, con buona pace della qualità e del miglioramento del servizio, quelle funzioni cruciali di cui parlavo».
Qual è lo stato d’animo dei medici che ancora lavorano nel servizio pubblico?
«Ci sentiamo squalificati e trascurati, siamo oggetto di critiche continue, di aggressioni verbali o fisiche. Riceviamo insulti sui social. A fronte di questo stiamo mandando avanti il servizio, stiamo comunque garantendo le risposte necessarie alle cosiddette patologie tempo-dipendenti (infarto, ictus, trauma, ecc.). Ma spesso lavoriamo accanto a colleghi meno qualificati e responsabilizzati che nel nostro stesso turno, guadagnano tre volte quel che guadagniamo noi e si occupano di situazioni certamente meno critiche di quelle che gestiamo noi. Nel frattempo provvediamo come meglio riusciamo alla gestione di tutti quei malati che restano in Pronto Soccorso in attesa di ricovero per giorni e giorni. L’intensità del nostro lavoro è aumentata enormemente negli ultimi anni. Siamo sempre meno e stiamo comunque tenendo aperti i servizi. È evidente che ci stiamo perdendo qualcosa.In questa situazione quando un medico mi dice che ha deciso di dimettersi per passare al privato o alla Medicina Generale o ad altri reparti meno impegnativi, come posso biasimarlo? Quale prospettiva professionale e personale posso offrire ai miei colleghi che decidono che la vita privata e famigliare ha la priorità? Semplicemente hanno ragione».
Qual è la soluzione?
«Non esiste la soluzione magica. È necessario un lavoro di profonda riforma di tutto il sistema, non solo in Pronto Soccorso ma in tutto il SSN. Certamente la prima cosa necessaria è la valorizzazione sia professionale sia economica dei colleghi che ancora resistono. Lo stipendio dei medici ospedalieri non può essere uguale per tutti, perché non siamo tutti uguali (carico di lavoro, orari, turnazioni, possibilità di libera professione, ecc.). Oggi chi entra in Medicina d’Emergenza Urgenza in ospedale non ha davanti un orizzonte di avanzamento di carriera se non in casi troppo rari e andrà in pensione con la stessa qualifica con la quale è stato assunto e con l’unico miglioramento determinato dalla sua anzianità di servizio. Ma siamo professionisti di alto livello e non possiamo essere trattati con questa noncuranza.E poi è vitale pensare a una riforma delle scuole di specializzazione perché non possiamo permetterci che migliaia di giovani medici, per quanto in formazione, continuino a essere trattati come studenti per cinque anni dopo la laurea. Al terzo o quarto anno di specialità hanno già una preparazione spesso imparagonabile a quella dei “gettonisti”. Certo devono essere correttamente inquadrati sia dal punto di vista delle responsabilità che del trattamento contrattuale. Su tutto questo, insieme ad altri provvedimenti come il riconoscimento dello status di lavoro usurante, l’intervento sul fenomeno dei tempi d’attesa per il ricovero ed altro stavamo lavorando con il Ministero, prima della crisi. È un’attività importantissima, che dobbiamo assolutamente riprendere al più presto».