Economia
March 11 2014
"Siamo ottimisti, tranquilli. Di certo non è piacevole, e si perdono tanto tempo ed energie. Ma se nella prima fase dell’inchiesta, come capita o ogni indagato, ci siamo trovati in una posizione molto più debole, ora cominciamo a giocarcela con i nostri argomenti". Alberto Giovanni Aleotti, 42 anni il prossimo 15 aprile, insieme alla sorella Lucia, da due anni e mezzo ha preso le redini dell’azienda di famiglia: la A.Menarini srl, prima industria farmaceutica italiana. Sedicesima in Europa e trentottesima nel mondo, è una multinazionale con oltre 16 mila dipendenti, 3,3 mila dei quali nel nostro Paese, e un fatturato 2013 di circa 3,3 miliardi di euro, il 72,5% messo a segno all’estero.
Con la sorella Lucia, però, oggi Aleotti è imputato in un processo per evasione fiscale e riciclaggio per una somma superiore a 1,2 miliardi di euro. La prima udienza si è tenuta il 21 febbraio e la seconda è alle porte: il 14 marzo. Si sono costituiti parti civili la presidenza del Consiglio dei ministri, il ministero della Salute, diverse Regioni e un lungo elenco di Asl, che reclamano risarcimenti milionari. Stralciata a causa delle condizioni di salute, invece, è la posizione del padre, il cavalier Alberto Aleotti, 90 anni, l’uomo che ha fatto grande e ha guidato la Menarini fino a settembre 2011: quando vi entrò da direttore generale, nel 1964, i dipendenti erano 188 e i ricavi 2 miliardi di lire (un milione di euro circa). Secondo la procura di Firenze, per quasi trent’anni, dal 1984 alla fine del 2010, Alberto Aleotti ha truffato lo Stato. Alcuni principi attivi, ovvero gli ingredienti fondamentali dei medicinali, non sarebbero stati acquistati direttamente dalla Menarini, bensì da società estere fittizie create dallo stesso Aleotti, e poi rivendute all’azienda fiorentina a prezzi maggiorati. In questo modo, Aleotti avrebbe accumulato cospicui fondi neri e ingannato il Comitato interministeriale prezzi: dichiarando costi gonfiati, lo avrebbe indotto a stabilire prezzi di vendita dei suoi farmaci più alti del dovuto. Così, tirano le somme gli inquirenti, "l’Aleotti si è procurato un ingiusto profitto non inferiore a 575 milioni di euro, con conseguente ingentissimo danno per il Servizio sanitario nazionale non inferiore a 860 milioni".
Lucia e Alberto Giovanni avrebbero concorso a riciclare i proventi frutto dei reati commessi dal padre: movimentandoli su 900 conti correnti riferibili a 130 società estere costituite ad hoc, per lo più di diritto panamense, poi investendoli in "attività finanziarie ed economiche" e trasferendoli a fiduciarie che li hanno scudati, per conto di Alberto Aleotti, nel 2003 e nel 2009.
Tra le recenti operazioni finanziare l'acquisizione del 4% di Mps nel marzo del 2012 attraverso la holding Finamonte. Che è scesa, proprio in questi giorni, dal 4% all'1%. Partiamo proprio da qui con Alberto Giovanni Aleotti:
Quando avete comprato il 4% non avevate sentore della crisi che avrebbe investito la banca pochi mesi dopo?
No, quando siamo entrati quella crisi non era evidente per niente.
Perché siete entrati in Mps?
Abbiamo investito per il territorio, è stata la prima grande diversificazione della famiglia.
Ve lo ha chiesto qualcuno?
Parliamo d’altro?
Come si fa a progettare il futuro con la spada di Damocle di un processo in corso?
Si fa. Quando c’era la spada di Damocle del commissariamento dell’azienda era molto, molto più difficile.
Perché un colosso come la Menarini ha come capogruppo una srl?
Così a nessuno viene il dubbio che la quotiamo domani.
Quanti nuovi farmaci Menarini sono entrati nel prontuario negli ultimi anni?
Quattro negli ultimi quattro anni.
Quanto investite per la ricerca?
Nel 2013 250 milioni, pari al 9% del nostro fatturato etico, esclusi cioè diagnostica e farmaci da banco. Nel 2014 arriveremo a 270 milioni.
Per gli investimenti chiedete finanziamenti alle banche?
No ci autofinanziamo. Non distribuiamo dividendi da parecchi anni, resta tutto in azienda, anche per finanziare lo sviluppo futuro e la ricerca. E non abbiamo debiti con le banche.
Se in Italia il gioco si fa sempre più duro, quali sono i mercati esteri più promettenti per la Menarini?
Nel medio lungo termine, il Medio Oriente, dove abbiamo appena messo la prima pietra, con fatica, aprendo una sede a Dubai. Poi l’Africa, dove stiamo facendo passi avanti con farmaci prodotti per lo più in Europa. Quest’anno inaugureremo uno stabilimento in Russia, dove già siamo terzi per quota di mercato. Ma all’orizzonte c’è soprattutto il Far East. A fine 2011 abbiamo comprato una delle principali realtà farmaceutiche dell’area, la Invida di Singapore, che è presente in 13 paesi ad alto tasso di crescita.
I tagli alla spesa farmaceutica nel nostro Paese mettono a rischio le aziende del settore, come denunciava ieri suo padre e oggi il presidente di Farmindustria Scaccabarozzi?
Negli ultimi 10 anni la spesa sanitaria è cresciuta del 60% e la spesa farmaceutica è calata del 3%. Ma non è questione solo di tagli. Entrare nel prontuario nazionale, che comprende i farmaci rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale oggi è difficilissimo per ogni nuovo farmaco. Sui farmaci di nuova introduzione, poi, dal 2006 vige un doppio tetto. La rimborsabilità vale fino al raggiungimento di un certo importo, superato il quale l’azienda che ha prodotto il farmaco deve restituire il cento per cento dello sfondamento allo Stato. Ad ogni azienda, inoltre, viene assegnata una quota annuale della spesa farmaceutica, che non può essere sforata.
Lei quando iniziò a lavorare in azienda?
Il 10 febbraio 1997. Me lo ricordo perché era il giorno della mia laurea. Avrei dovuto cominciare il giorno dopo, ma era un martedì e non mi sembrava di buon auspicio. Bene, mi ha detto il babbo, allora cominci oggi stesso.
Come vi siete spartiti i compiti lei e sua sorella?
Io mi occupo più di sviluppo dei farmaci, lei di politica, dei rapporti con Farmindustria e Confindustria. È il volto pubblico della Menarini anche perché è ben più espansiva di me. Ma stiamo molto insieme. Dà sicurezza condividere scelte e problemi, ora che il babbo non è più in azienda.