A Mentone c'è un pazzo che dicono si chiami Jean Cocteau

Jean Cocteau? Era un pazzo che credeva di essere Jean Cocteau. Così, rovesciando la sua celebre battuta su Victor Hugo, si potrebbe definire uno degli artisti più eccentrici e poliedrici del Novecento. Pittore, cineasta, romanziere, uomo di teatro, ma soprattutto poeta (un termine che per lui riassumeva tutti gli altri), Cocteau è una di quelle nature mercuriali che è impossibile ricondurre a norma e sistema. La stessa ricchezza dei suoi doni ha forse finito per danneggiarlo, rendendolo dispersivo e assai meno inquadrabile di altri protagonisti del secolo breve che gli furono amici, da Marcel Proust a Coco Chanel, da Guillaume Apollinaire a Erik Satie, da Pablo Picasso a Igor Stravinskij. Perfino Raymond Radiguet, l’autore del Diavolo in corpo morto a soli 20 anni, che fu il suo grande amore prima del lungo sodalizio sentimentale con l’attore Jean Marais, ha oggi nella memoria collettiva un profilo più stagliato del suo. Col rischio di quell’effetto Carneade che, a 50 anni dalla scomparsa dell’artista (1889-1963) può spingere molti a chiedersi: Jean Cocteau, chi era costui?

Una risposta quantitativamente articolata viene fornita dal nuovo museo che gli ha dedicato la città di Mentone, dove Cocteau soggiornò a lungo a partire dagli anni Cinquanta. Si tratta d’un autentico cocktail-Cocteau, 1.000 opere raccolte dall’industriale Séverin Wunderman che vengono esposte a rotazione. Ma, per quanto ricca e strana, non c’è collezione che tenga: il mistero Cocteau perdura.

Lo scrittore italiano Vittorio Orsenigo, che lo conobbe di persona all’inizio degli anni Cinquanta, in occasione della presentazione del suo Orphée alla Mostra del cinema di Venezia, lo ricorda nella hall dell’Hotel Excelsior, "ancora più magro e dal muso più cavallino del solito", mentre risponde a un’intervista. "Ma lei ha mai fatto del cinema che sia vero cinema?" lo incalza il critico Giulio C. Castello. E Cocteau: "Può essere che non abbia mai fatto del cinema, ma la cosa non è troppo importante. Importante è la poesia". Detta da colui che il papà del Surrealismo André Breton aveva bollato  come "falso poeta", è una frase rivelatrice.

Cocteau credeva nella poesia in senso etimologico: un "fare" che è anche un incessante sperimentare, senza distinzione di generi o di categorie, proprio come l’amico Stravinskij. Perché il nuovo, per dirla con Milan Kundera, "può trovarsi in una direzione diversa (…) da ciò che per tutti rappresenta il progresso". È a questa rischiosa ricerca del nuovo, dio oscuro ed esigente, che Cocteau ha sottomesso i suoi molti talenti. C’è di che essergliene grati.

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