Musica
October 03 2015
Alcatraz, Milano. È da poco passata l'una di pomeriggio. Ho l'appuntamento per incontrare Michele Bravi nel backstage poco prima del suo incontro con i fan. Il locale è pieno di ragazzi con in mano il nuovo EP ("I Hate Music", uscito ieri per Universal), uno smartphone per un eventuale selfie e anche tanti cartelloni, con foto e dediche (era davvero tanto tempo che non li vedevo). Michele Bravi, dopo la vittoria a X Factor 2013, non ha sfruttato l'improvviso successo per arrivare ad un'esposizione mediatica forte (a volte anche violenta). Intendiamoci, quello che è uscito ieri è il secondo progetto di inediti dopo la vittoria, e il suo rapporto con i fan non è mai mancato, anche grazie al suo ingresso nel mondo di YouTube. Dallo scorso gennaio, infatti, ha aperto un suo canale personale, dal quale interagisce - settimana dopo settimana - con i fan, anche insieme a nuovi amici youtubers; molti di loro hanno voluto essere presenti oggi pomeriggio sul palco insieme a lui (Sofia Viscardi, The Show, hmatt, Daniele Doesn't Matter, e tanti altri).
This is it@michelebravi #alcatraz#fanevent
Una foto pubblicata da giulio_volpe (@giuliovolpe) in data:
Perché il titolo del disco?
È un album che parla di odio. È il racconto degli ultimi due anni che sono stati molto negativi, molto pieni di odio verso me stesso, verso tante persone, verso un certo modo di fare le cose in cui non mi riconoscevo. C’è una forte negatività all’interno. Ma “I Hate Music” è anche una provocazione: le canzoni sono molto positive, grintose, energiche. È un odio che è diventato energia. C’è stato un momento in cui ho capito che avevo voglia di dire le cose quasi gridandole, quindi ho trovato il giusto coraggio per metabolizzare questo odio. È un racconto del passato.
Che cosa in particolare ti sentivi di voler dire?
Volevo dire le cose come le pensavo. Io sono nato come autore ma ho sentito il bisogno di presentarmi come interprete. Sapevo che i miei pezzi erano molto ingenui, deboli nel senso di consapevolezza. Collaborare con gente come Tiziano Ferro e Giorgia mi ha aiutato a capire chi ero: è stato tutto necessario. Loro mi hanno aiutato a valutare molte prospettive e capire dove stavo più comodo. Ho tirato le somme da queste grandi collaborazioni e questo è un album che contiene pezzi in cui mi sento molto a mio agio: raccontano il momento in cui stavo vivendo. È una cosa molto più omogenea e diretta.
Tutti i pezzi sono in inglese. Come mai questa scelta?
All’inizio non mi sono posto nessun criterio né limite. Ho lasciato che le cose venissero da sole. Istintivamente ho sentito la necessità e la naturalezza di scrivere in inglese. Nel momento in cui le canzoni erano pronte mi sono chiesto: “Perché tradurle in italiano?”. Mi sembrava quasi di violentarle in questo modo. Anche perché se nascono in un certo modo, una ragione c’è.
Anche i suoni sono ben diversi rispetto a quelli a cui ci avevi abituati ad X Factor. Cosa ti ha spinto in questa direzione?
Ho messo le mani nella produzione di questo album insieme a un ragazzo di Roma che mi ha dato le basi tecniche per portare nel concreto le mie idee. Semplicemente ho ascoltato molto di più le cose che mi piacciono. Fino a qualche tempo fa non avevo chiara la cosa che tu puoi ascoltare tanti generi e suoni diversi senza sapere qual è il tuo. A me è successo così, nel senso che, essendo un ascoltatore molto eterogeneo di musica, non mi ero posto il problema di risultare migliore in un modo piuttosto che in un altro. Ognuno ha bisogno di trovare la sua atmosfera e il suo suono, per quanto uno possa apprezzare anche cose molto diverse. Sono arrivato a vestire un vestito giusto per me.
A proposito di vestito, nella cover dell’album non hai niente addosso se non un progetto grafico molto particolare. Ti ci rivedi?
Per tutto il discorso visual (grafiche, copertine, video) mi sono affidato a due ragazzi di Roma molto bravi e molto giovani. Abbiamo fatto lunghe chiacchierate sul modo con cui io avrei avuto il piacere di rappresentare l’album. È stata un po’ un’indagine sull’estetica che loro hanno percepito dai pezzi. Mi piace molto. Appena ho visto la cover ho provato una tensione particolare. Sono stato molto fortunato perché ho lavorato con un sacco di persone giovani (ma non per questo inesperte) e tutti abbiamo avuto uno stesso modo di condividere questa filosofia di progetto: c’è stata una sintonia assoluta su tutto. Hanno saputo cogliere quello che volevo raccontare, utilizzando la nudità che mi ha messo un po’ in imbarazzo ma che, allo stesso tempo, mi ha messo in gioco. È stato bello.
Nel momento di massima popolarità, ti sei subito messo a scrivere, forse non sfruttando al massimo la possibilità di esposizione mediatica. Rifaresti questa scelta?
Era il momento massimo di popolarità ma il momento minimo di capacità. Tre mesi prima non mi conosceva nessuno, cantavo nelle migliori pizzerie di casa mia (scherza, ndr). Mi mancava la ginnastica per stare sul palco e per fare musica di serie A, per cui ho preferito iniziare con calma, fare una gavetta diversa, un percorso di ricerca che comunque voglio che continui in maniera molto pesante. L’ho trovato coerente con le mie scelte e anche con chi mi seguiva. Non mi sono mai presentato come quello troppo sicuro di sé. È una ricerca continua che voglio continui.
Da qualche tempo a questa parte sei diventato uno youtuber. Come mai questa scelta?
È nato tutto dall’esigenza di raccontare questo cambiamento che stavo vivendo. Rispetto al vecchio album sono passati quasi due anni e sono successe tante cose: io sono cambiato molto. È comprensibile che uno a vent’anni debba ancora capire cosa vuole essere. Senza questo mio racconto così quotidiano avevo paura che le persone non capissero, ascoltando le mie canzoni. Ho voluto condividere giorno per giorno quello che stava succedendo; se guardi il primo e l’ultimo video che ho pubblicato sono veramente due cose molto diverse ma è stato un bel traghetto verso un’evoluzione mia. C’è stato un dialogo condiviso tra me e chi mi guardava. Mi è servito molto per mettermi in gioco e per capirmi.
E ne esce anche un tuo lato più estroverso…
Sì. Quando parlo di musica sono molto professionale, perché ci tengo e ci pongo un’attenzione diversa. Ma chiaramente uno non è sempre così, tutto il giorno. Ci sono anche i momenti in cui uno è più leggero, e questo però nelle canzoni ritorna. Anche perché le canzoni non nascono solo davanti alla luna piena. Magari l’idea ti viene pure mentre lavi i piatti. Io avevo bisogno di raccontare anche la pantofola che c’è in me, che è presente nell’album (magari è messa più elegantemente ma, fidatevi, c’è).
Hai deciso di essere testimonial della campagna #4change di Dompé per la prevenzione. Come mai?
Ho trovato il progetto molto interessante. Promuovere una campagna in cui si parla dell’amore verso se stessi è un po’ anche il senso dell’album: io ho imparato ad amarmi grazie all’odio che ho vissuto e quindi ho potuto vedere che c’era una possibilità. È bello far capire alle persone quanto è importante amarsi, anche con piccoli gesti come ascoltare una canzone la sera o andare a correre. Ognuno ha il suo modo di sfogarsi e di amare se stesso. Io mi sentivo molto in linea con questo progetto; sono stato molto contento di partecipare a questa cosa. È strettamente legata alla filosofia da cui tutto il disco è nato.