Costume
December 06 2021
Mimmo Paladino parla con voce bassa, calma. Come se la vita per lui fosse stata quasi un gioco, con l’atteggiamento leggero di chi l’ha affrontata seguendo bene la lezione di Italo Calvino. Leggerezza è saper planare sulle cose dall’alto, «non avere macigni sul cuore». Con questo spirito ha voluto mettersi in gioco illustrando la Divina Commedia. A 700 anni dalla morte di Dante, Forma Edizioni dedica un omaggio con un volume prezioso corredato da 50 riproduzioni di opere appositamente realizzate da uno dei maestri della Transavanguardia. Dalla sua casa vicino a Benevento anticipa a Panorama che tra Campania e Puglia sta girando un film dal titolo evocativo: Inferno. «Spero sia pronto per la prossima Mostra del Cinema di Venezia». Intanto spiega il rapporto che ha con la Commedia. Che per lui è soprattutto «una grande messinscena».
Le piaceva anche quando era uno studente?
Più che subirla, come tutte le cose scolastiche, ho sempre sentito il fascino che arrivava dalla sua capacità di provocare immagini. L’ho guardata al di là della grandezza poetica e senza lasciarmi suggestionare dai famosi dipinti. A cominciare da Botticelli per finire a Robert Rauschenberg, artista assai distante dalla nostra cultura, ma che testimonia il linguaggio universale del Sommo Poeta.
Qual è la sua visione di Dante?
Avevo il desiderio di cimentarmi. Ho iniziato estrapolando in maniera istintiva sensazioni che potessero provocare una forma. È chiaro che l’Inferno è quello che ne provoca di più. Il tratto drammatico è maggiormente esprimibile. Il Paradiso è senza dubbio molto difficile. Così ci sono pagine favorite rispetto ad altre.
Quali sono le pagine che più ha amato disegnare?
Quelle della prima delle tre Cantiche. Sicuramente il girone dei dannati è meno noioso, mai statico, pieno di energia. I personaggi si agitano, sono insofferenti, cercano di ribellarsi e infine sono condannati. Un’umanità complessa rispetto alla statica bellezza del Paradiso.
Come ha immaginato i diversi Canti?
In Dante c’è questo misto tra fantasia scatenata e analisi del proprio tempo, anche in termini politici. È stato un immenso visionario, ma con una certa concretezza. E ciò è molto vicino all’idea dell’artista, che deve essere visionario e concreto. Non esiste solo l’immaginario, ma anche una forma di sostanza della propria disciplina. Dante scruta l’invisibile, dà una visione dell’improbabile. O meglio di un probabile improbabile.
Lei ha illustrato l’Odissea, la Bibbia, Pinocchio. Quale fil rouge lega questi capolavori?
Il filo rosso è il viaggio. Sono tutte storie di un cammino. La Bibbia, come Pinocchio. In fondo la nostra vita è un viaggio.
Dopo aver girato nel 2006 Quijote, tratto dal Don Chisciotte di Cervantes, ora ha voluto scendere tra le fiamme della dannazione. Cosa l’ha spinta nella selva oscura?
Anni fa, prima di questo anniversario, mi imbattei in una trascrizione dell’Inferno del poeta Edoardo Sanguineti, scritta probabilmente per un’opera teatrale. Avanguardista, estrema. Questa idea che si potesse rileggere la Commedia in chiave contemporanea, con una profonda ricerca linguistica, mi è piaciuta. E poi il cinema è divertente, è un lavoro corale con infinite sorprese. Ho sempre voluto dirigere un secondo film. Quale testo migliore se non la Divina Commedia, per lo meno l’Inferno? Poi il tempo è passato, costava troppo, le solite storie che si trascinano. Finché oggi qualcosa si è mosso e abbiamo iniziato le riprese. Come diceva Andrej Tarkovskij: il cinema è una tela dipinta con la luce. Vuol dire che ancora una volta, dipingerò.
Ci racconta il suo personale Inferno?
Dante sarà in compagnia di Virgilio, che immagino come un negromante, un personaggio ambiguo e di malaffare. Ma non ci sono solo i personaggi, c’è il presepe.
Cosa intende?
Il presepe ha un aspetto piramidale. Mi riferisco soprattutto a quelli della nostra cultura campana: in alto la Natività, poi arrivano i Re Magi e in basso, man mano che si scende, c’è di tutto. Un’umanità varia: dal macellaio fino alle figure contemporanee. Nel mio film Dante e Virgilio visiteranno questa sorta di presepe, dove incontreranno da Paolo e Francesca al conte Ugolino e Caronte. E poi Pitagora, Giordano Bruno, anche un ferroviere. È questo il piccolo meccanismo del mio soggetto. Alla fine si scopre che sono due poveri attori che stanno recitando una parte. È solo una messinscena, proprio come la Divina Commedia.
Da dove nasce questa idea così teatrale del Poema?
Lui costruisce una scenografia per ognuno dei suoi incontri, proprio come si fa per il teatro. Allestisce la scena, agisce secondo una forma di strategia teatrale: è un regista che mette i protagonisti sul palco e li fa recitare.
Qual è il suo preferito?
Diversi e tanti. Anche se in fondo il preferito non c’è. Dante è il prediletto, colui che viene inghiottito da questo involontario percorso. Nel mio film non dice una parola. Attonito e silenzioso scivola attraverso un mondo di miserabili.
Chi lo interpreterà?
È un non-attore. Poi ci saranno anche attori reali: Toni Servillo sarà il Conte Ugolino. Per Lucifero, portatore di un’idea molto lucida dell’arte e della bellezza, avevo pensato a Lou Reed. Ora che non c’è più, ho voluto sua moglie Laurie Anderson. In fondo è un film sull’idea di bellezza: istintiva, drammatica, espressionistica.
Non le pare che oggi la bellezza sia come sfiorita?
Ci sono cose che sono di eterna bellezza, come l’Inferno. Nella drammaticità c’è l’idea del bello. Diversa, opposta al cielo azzurro del Paradiso. Il tutto unito a una forma religiosa.
Lei è credente?
Sono cresciuto con una forma di cultura mediterranea molto legata al rituale cattolico. Fotografi come Ferdinando Scianna hanno raccontato perfettamente la cultura popolare cattolica: le processioni, le folle dei credenti, la magia e la devozione. Grandi opere barocche e arcaiche. Tutto ciò mi interessa molto. Ernesto De Martino ha capito per primo una realtà potente come quella dei riti del Sud Italia. Nel mio lavoro mi riferisco a questo mondo lontano nel tempo, ma che ha una forza dirompente. E ancora sopravvive. Noi abbiamo quelle radici.
Invece le sue radici nel mondo dell’arte sono mutate?
I movimenti sono finiti con il Futurismo. L’Arte Povera e la Transavanguardia sono state aggregazioni involontarie. Adesso i tempi sono diversi. Gli anni Ottanta erano effervescenti. C’era una sorta di palcoscenico dell’arte. Oggi non è che non ci siano artisti importanti, però l’effervescenza mi pare più frammentata. E non c’è più un palcoscenico. Il Covid non ha fatto altro che eliminare del tutto una tendenza già in essere. E mi riferisco a Londra. Spero che torni a essere la città dell’arte che era prima del virus.
Achille Bonito Oliva, il critico che definì i contorni della Transavanguardia, in un certo senso suo padre spirituale, in che Cantica lo metterebbe?
Lui amerebbe l’Inferno. Allora per castigarlo lo metterei in Paradiso. Un po’ di noiosa beatitudine gli sta bene, così impara. Ma siccome gli voglio bene, mettiamolo all’Inferno.
E lei dove si posiziona?
Ma è proprio necessario andare da quelle parti? Aspettiamo ancora un po’.