Televisione
March 07 2017
Stavolta pesci grossi. Anzi giganteschi. Per esempio il sindaco moralista con la voglia matta, il giro di droga imponente quanto quello della prostituzione, la discoteca scambistica e, sull’orizzonte del panorama poco edificante, la nuvola nera della mafia.
Partendo dal corpo senza vita di una ragazza, il ritrovamento del quale è annunciato con la telefonata a Salvo Montalbano (Luca Zingaretti) nella più classica formula da commissariato: “Trattasi di un cadavere di sesso femminile. Donna”.
Era lo spunto del secondo e ultimo episodio inedito de Il Commissario Montalbano, titolo Come voleva la prassi, andato in onda su Raiuno e in capo – con Un covo di vipere della scorsa settimana – ad una serie che adesso prevede alcune repliche egualmente appetibili, com’è ovvio in una emissione diventata davvero “di culto” nella fruizione televisiva.
L’azione, più complessa di quella rappresentata nella puntata scorsa e ripresa da raccolte diverse di Andrea Camilleri (Morte in mare aperto ed altre indagini del giovane Montalbano, ed. Sellerio e Gli arancini di Montalbano e Un mese con Montalbano, ed. Mondadori), si è sviluppata in un paio d’ore attorno a due storie parallele, meglio, l’una racchiusa dentro l’altra come in un sistema di matrioske.
La ragazza nuda e insanguinata
Il blocco principale era ovviamente legato al delitto e alle indagini, con quell’inizio tosto, la giovinetta nuda e insanguinata che si trascina fino alla “Panda”, corre quasi alla cieca per le stradine di Vigata per poi fermarsi e andare a morire nell’androne di via Pintacuda. Chi è? Nessuno dei condomini la conosce. Buio pesto. Un osso duro per il commissario.
Insomma il nulla. Poi, ovviamente, dal nulla al tutto. Con calma serafica e anche con un po’ di fortuna Montalbano tesse la sua tela paziente, interrogando e spulciando con a fianco i fidi Mimì (Cesare Bocci) e Fazio (Peppino Mazzotta), scoprendo gli altarini di parecchie persone; e individuando, attraverso la sua amica Ingrid (Isabell Sollman) che mostra di conoscere talmente bene da stuzzicare la rituale gelosia di Livia (Sonia Bergamasco), i meccanismi del giro di prostituzione che ha portato alla morte della ragazza.
Una fine violentissima, stupro di gruppo e coltellate nelle dinamiche di un assassinio tanto feroce da turbare e disgustare perfino l’accigliato spinoso dottor Pasquano (Marcello Perracchio), stavolta più professionale e non intento a ingozzarsi di cannoli siciliani.
Quel festino precipitato in tragedia
Sicché, messo il naso in tanto verminaio e arrivato a sfruculiare i famigerati Cuffaro che si appoggiano a una banda dell’Est europeo per gestire i loro traffici loschi (per questo rischia pure una pistolettata e si salva per miracolo), Montalbano si ritrova tra le mani la soluzione: in quel festino precipitato in tragico snuff movie, ripreso dal fotografo “regista” morto ammazzato pure lui ma capace, nel soprassalto di responsabilità, di spedirgli il dvd con le scene del crimine e i volti dei notabili partecipanti, sindaco con voglia matta in testa.
La doppia “morale” del titolo
La morale della storia e l’abilità di Montalbano sono tutte nel titolo: nel pubblico ministero che, “come vuole la prassi”, tenta di insabbiare la faccenda una volta scoperto il colpevole più eccellente; e nel commissario che ne sa una più del diavolo e che, come vuole la sua, di prassi, non si fa infinocchiare e vince la sua battaglia nel modo più beffardo possibile.
Sullo sfondo ambienti sordidi e, in linea con la svolta narrativa di queste nuove puntate (sempre derivata, logicamente, dalla scrittura di Camilleri), tematiche scabrose molto al limite per una prima serata di rete generalista, tutte risolte però con l’eleganza e la disinvoltura spalmate dalla mano leggera di Alberto Sironi, che della regìa di questa saga-Montalbano ha fatto un vero e proprio modello stilistico.
Allo stesso modo di Luca Zingaretti, che ormai si muove nel personaggio e nei suoi ambienti come se fosse a casa sua – e in fondo un po’ lo è, anche – pure conservandosi quegli spazi artistici ed espressivi “altri” nel cinema, a teatro, in tv che ce lo consegnano tra i migliori attori italiani a tutto tondo senza legarlo a modelli e stereotipi.
La recitazione? Un piacere vederla
Zingaretti, certo, Montalbano lo recita alla perfezione. Viene di pensare che senza di lui la serie televisiva non esisterebbe. E credo che qualcosa, a livello di popolarità, glie la debba anche Camilleri, naturalmente senza sottrargli la fama e la gloria meritate di scrittore. Una recitazione che è un piacere da osservare, assorbire e comprendere.
E fa venire in mente, per adesione e personalità, quella del Maigret di Jean Gabin, replicata poi con tanta fortuna anche qua in Italia da Gino Cervi. Insomma un fenomeno di consumo televisivo che fa effetto; specie all’interno di un sistema che propone ogni giorno mille alternative; ma che, proprio in quanto “fenomeno”, non deve sorprendere più di tanto perché di queste sostanze è fatto il mondo dell’entertainment.
Verità reale e processuale
Detto della vicenda principale, il “giallo” vero e proprio dunque il cuore dinamico dell’episodio, vale la pena di ragionare sulla storia seconda o parallela, che va definita così soltanto per una minor misura di occupazione temporale e per una aderenza di genere più laterale rispetto ai viluppi e agli sviluppi del racconto investigativo.
Perché la figura di quel misterioso anziano signore in abito scuro e panama che passeggia lungo la spiaggia assolata e si rivela poi nel giudice in pensione Leonard Attard (Nuccio Vassallo) illumina con il suo caso l’intero racconto. Con una densità e una profondità che meriterebbero, in altre circostanze e dimensioni, un film a parte.
Compiuto e disvelato fino nelle pieghe più segrete di quella revisione delle sentenze emesse durante la vita professionale che il giudice opera tra le carte processuali: in una misura sospesa fra la rivisitazione delle propria coscienza e l’estensione filosofica del concetto di “dubbio”, di verità reale e di quella processuale.
Intuizione straordinaria, che arriva ad impegnare, si direbbe quasi a “sorvegliare” il tratto primario del racconto sostenendone al tempo stesso i ritmi e le pause.
Una pagina molto intrigante e ben girata, a seguire un modulo narrativo sperimentato (l’arrivo del personaggio extra-vicenda, come fu l’Alessandro Haber in Un nido di vipere ma stavolta con più affascinanti risvolti tematici) e consentendo a Zingaretti e a Vassallo d’interpretare una gran bella pagina di recitazione, nella penombra di quello studio, tra gli scaffali colmi di classificatori e di carte processuali, a parlare di dubbi, di certezze, di memoria e forse di rimorsi.
Profumi e sapori irresistibili
Poi, naturalmente, ecco le nuotate nel mare trasparente capaci di ricaricare e stemperare, il caffè fumante servito con la moka nel tintillìo di tazzine e cucchiaini che pare di sentirne il profumo su quella terrazza al centro del mondo montalbanico, i pranzi irrinunciabili e i piatti irresistibili snocciolati come fossero un ricettario di cucina, dai polpi alla Luciana al ricercato gambero rosso, dalla tartare di tonno alla granita di caffè con la panna senza zucchero.
Incapace di negarsi tutto ciò, Salvo Montalbano ce lo consegna, ce lo ha consegnato ancora una volta, come un invito a godersi, se non il meglio, almeno quel po’ di buono che offre la vita, anche quando attorno insiste l’oscurità più greve e insondabile.
Due note ulteriori. La prima per il brano Ciuri di strata, scritto e cantato da Olivia Sellerio nel finale e sui titoli di coda, pezzo armonicamente strutturato e disteso, molto pregevole anche nella sua facilità di ascolto.
La seconda per l’agente Catarella (Angelo Russo), ormai diventato a suo modo un piccolo must della serie, macchiettistico nella iterazione degli interventi maldestri e dei nomi storpiati, quasi una maschera da commedia dell’arte, irrinunciabile nella sequenza ritmica del racconto e stimolo non ultimo di quello humour che, assieme alla flemma disincantata e alla perseveranza febbrile rappresenta al meglio il respiro di Montalbano.
Rigoroso, sdrammatizzante, sobrio e seduttivo.