ANSA/NICCOLO CADIRNI
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Monte dei Paschi. Rosso di Siena

Inutile pensare di cambiarli. I senesi sono senesi e basta, a loro insaputa, da sempre. E se ne fregano pure, perché «Siena trionfa immortale» sempre e comunque, come diceva Silvio Gigli, celebre telecronista del Palio e massone doc.

Non importa così se per anni hanno vissuto felici e contenti all’ombra della Torre del Mangia grazie ai miracoli di San Giuseppe (Mussari), protettore che a suon di milioni di euro li manteneva nel limbo del «groviglio amoroso», dove l’unica distinzione sociale, politica e culturale era fra chi lavorava al Monte, chi non lavorava al Monte e chi avrebbe voluto lavorare al Monte. Un fiume di denaro assurdo per il buon senso, soprattutto in una città antimprenditoriale per quanto blasonata, che conta meno abitanti del quartiere Corviale di Roma.

Non importa. Oggi le cose sono cambiate e quindi tutti a berciare contro il Monte, come nella tragicommedia dell’ultima assemblea dei soci, dove tutti si scaldavano contro «il gruppo di mascalzoni che», come ha scritto Eugenio Scalfari, «s’impadronì della fondazione e della banca, si dedicò a operazioni arrischiate di finanza speculativa, falsificò i bilanci, occultò le perdite e probabilmente lucrò tangenti e altrettante ne distribuì».

Passi per Scalfari che è nato a Civitavecchia, cresciuto a Roma, e si è occupato di altro nella vita. Ma come può parlare così un popolo che, salvo rarissime e discutibili eccezioni, fino a ieri faceva la fila per assistere alle partite del Siena calcio nella poltrona più vicina a San Giuseppe? Che faceva la gara per l’onore di accendergli la sigaretta? Che si svegliava all’alba per guardarlo sudare a calcetto o sistemarsi il ciuffo sugli spalti della Mensana basket? Eppure a Siena funziona così. Da Pandolfo Petrucci, il signore che nel XV secolo ridette smalto alla città e morì deprecato, a Enea Silvio Piccolomini, l’umanista che divenuto papa sintetizzò in un distico il rapporto con la città («Quand’era Enea nessuno mi volea, ora che son Pio tutti richiama zio») su su fino a Benito Mussolini, che s’inorgogliva del fascio senese finché con la Liberazione tutti erano stati sempre comunisti e partigiani, la regola è chiara. Finché mi fai star bene la tu’ mamma è contradaiola, te sei un grande esperto di cavalli e io ti sostengo a qualunque costo. Quando invece la realtà riporta ognuno alle proprie responsabilità, allora te sei calabrese, è tutta colpa tua e dovremmo usare l’alabarda sulla tua testa. Parole sentite all’ultima assemblea dei soci.

Lo stesso vale in quella politica che oggi fa a gara ai distinguo. Come se non fossero leggendarie le riunioni della federazione Pds-Ds sui destini strategici della banca. Come se a Siena tutti i sindaci degli ultimi decenni non fossero stati dipendenti di Rocca Salimbeni, escluso l’ultimo, Franco Ceccuzzi, che non era dipendente, viene dalla provincia (Montepulciano) e si dice sia caduto anche per questo, per aver voluto la «discontinuità». Infine, come se moltissimi politici senesi, l’ultimo Gabriele Corradi, padre del calciatore Bernardo, sfidante di Ceccuzzi alle ultime elezioni comunali, non fossero dirigenti in aspettativa del Monte, che impiega 3 mila persone e «fa welfare sostitutivo, restaura palazzi, decide assunzioni, affidamenti e promozioni».

Sbaglierebbe, però, chi pensasse soltanto a una faida interna fra ex comunisti. Nell’affaire Monte, simbolo alchemico e quintessenza della senesità, ce n’è per tutti: dalla massoneria alla curia, dall’università ai grand commis d’affari. Compreso il Pdl, che per i senesi non è altro che il Pd con la elle in fondo. Andrea Pisaneschi, stimato professore universitario e collaboratore del Sole-24 Ore, presidente dell’Antonveneta e membro del cda del Monte, è legatissimo a Denis Verdini, il coordinatore nazionale del Pdl. E Alfredo Monaci, il candidato senese nella lista di Mario Monti, è il fratello di Alberto, faceva il presidente della Biverbanca ed è considerato molto vicino all’ex ministro Andrea Riccardi, oltre che a Rosy Bindi.

Prima della caduta del Muro di Berlino le cose erano diverse. Quando il territorio era ancora diviso tra Dc, Pci e poi Psi i comunisti controllavano gli enti locali, l’ospedale e l’università, mentre la Dc (e il Psi) si occupava della banca, che faceva utili e li girava agli altri. La fine della Balena bianca lasciò mano libera a un partitone che era rosso fuori ma multicolore dentro. Fu a quell’epoca, quando il segretario dei Ds senesi era il brillante stratega Luca Bonechi, che si decise il destino dei due giovani cavalli di razza: Franco (Ceccuzzi) sarebbe salito in politica e Giuseppe (Mussari) in finanza. Ma poteva anche essere il contrario, tanto il popolo non aveva grande intenzione di contestare. Perché, poi?

«Per forza e per amore ci dovete rispettà» recita il refrain della città del Palio. Questa volta però non sarà facile. Non solo gli ex amministratori del Monte, avvisati dalla fine del 2009 del rischio che eventuali variazioni di tassi o del rischio sovrano avrebbero avuto sul portafoglio Btp. Ma soprattutto per il popolo che, come ha scritto Antonio Socci, intellettuale raffinato e senese doc autoesiliato nel Chianti, più che la banca «ha perso l’anima».

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