Lifestyle
February 18 2019
Non si può allargare il museo? E allora che sia diffusa la collezione! Se l’idea non si dirà geniale sarà diabolica, ma così è accaduto che qualche anno fa Laurent Le Bon, presidente del Musée Picasso, nel quartiere parigino del Marais, coinvolgesse più di 60 istituzioni internazionali mettendo in cantiere oltre 40 mostre dedicate all’artista andaluso. Ecco il motivo per cui solo nel 2018 ne sono state inaugurate 21. Non tutte dello stesso livello, va da sé – deliziosa Picasso Metamorfosi appena concludersi al Palazzo Reale di Milano – ma, della moltitudine, la più ambiziosa ha aperto a inizio febbraio alla Fondation Beyelernei pressi di Basilea. Curata da Raphaël Bouvier, Il giovane Picasso. Periodo Blu e Rosa, fino al 26 maggio, è una carrellata di capolavori, 75 opere in tutto, che vanno dal debutto, a Malaga, fino ai dipinti primitivisti dell’epoca delle Demoiselles d’Avignon, dove già si respira aria di cubismo. Rarissimo vedere tanto materiale di prima scelta raccolto in una sola location. E sebbene l’arco temporale preso in considerazione sia ristretto, mezza dozzina d’anni, racconta di una cruciale (e rapidissima) evoluzione.
La storia che va ricostruendosi qui, nello spazio espositivo progettato da Renzo Piano negli anni 90, è infatti quella del giovane che «voleva fare il pittore e diventò Picasso». Idealmente comincia quando Pablo Ruiz, diciannovenne, si trasferisce per la prima volta nella capitale francese, nel 1900. È con l’amico Carles Casagemas, figlio di un diplomatico spagnolo meglio educato di lui, ma psicologicamente meno attrezzato. Condividono la vita bohemien di Montmartre e le donne, tra cui una lavandaia di nome Laure Florentine, che si fa chiamare Germaine. A un certo punto Germaine rifiuta Casagemas e si dice in giro perché impotente. Picasso, che aveva l’abitudine di ritrarre l’amico in rapidi schizzi, lo disegna nudo, con le mani a coprirsi i genitali. Una sera di febbraio in cui lui è lontano, Casagemas organizza una cena tra amici, deposita un mazzo di lettere sul tavolo ed estrae una pistola, che rivolge verso Germaine e spara. Non accorgendosi di averla mancata punta poi l’arnese contro di sé gridando: «Et voilà, pour moi!». Muore verso mezzanotte in ospedale. L’episodio costituisce la scena madre di quello che poi si conoscerà come il “periodo blu” di Picasso, contrassegnato da una pittura dai toni lividi e i soggetti derelitti, tanto più che l’artista indulge nella malinconia stabilendosi in casa del compagno morto e continuando a frequentare la lavandaia. Più tardi sarà il gallerista Ambroise Vollard a comprare in blocco i quadri del giovane autore, il quale potrà così partire con il ricavato per un viaggio nei Pirenei, a Gósol, assieme alla fidanzata Fernande Olivier. È lì che la sua palette si rinvigorisce e assorbe i colori della terra, facendo così esplodere il “periodo rosa”. Una fase prima costellata di figurine circensi e arlecchini con cui, via via, l’artista cerca di fuggire a un sentimentalismo che ancora risente della tradizione pittorica ispanica e che si assesta, infine, nell’elaborazione di un linguaggio pittorico singolare, con tratti spigolosi e africaneggianti.
«Parlando dei quadri blu e rosa, Picasso spesso mi diceva ‘Il faut oublier tout ca!’ Ma non ci credeva affatto, e nemmeno io» racconta John Richardson, il novantenne biografo dell’artista. Alla sua epoca, quei dipinti non si vendevano facilmente. Oggi sono gelosamente custoditi e radunarli da ogni parte del mondo dove sono dispersi è stata un’impresa, presumibilmente irripetibile. Si tratta di opere che raramente viaggiano, standosene in collezioni private o musei, dove sono il principale motivo di attrazione. Il monumentale La Vie, fosca allegoria della vita di casa al Cleveland Museum of Art, era tornato solo una volta in Europa, a Barcellona nel 2013. In mostra c’è anche il nudo di una ragazzina pubescente (La fillette au panier de fleurs), che è stato uno degli high-light nella clamorosa asta delle proprietà di Peggy e David Rockfeller tenutasi l’anno scorso da Christie’s New York, passato di mano per 115 milioni di dollari. Un ruolo chiave per l’affermazione dell’artista spagnolo lo giocarono Leo Stein e sua sorella Gertrude, due intellettuali americani che, non avendo di meglio da fare, decisero di trasferirsi nella Ville Lumière e divennero in tutta la vicenda dell’avanguardia d’inizio secolo XX gli “opinion leader” di riferimento. Fu Leo il primo acquirente della Fillette (nella stessa occasione comprò anche Famille d’acrobates avec un singe). Gertrude ne era disgustata, in principio, per via del soggetto impudico e minorenne, ma dovette poi, evidentemente, cambiare idea. E il resto è storia.
L’intera operazione è costata alla Fondazione mediamente quattro volte di più di ogni mostra precedente e le opere sono state assicurate per 4 miliardi di franchi. Sono tante, e per certi versi anche sentimentali, le ragioni per cui una mostra del genere – una mostra apparentemente impossibile – accade qui. Ernst Beyeler, mercante e collezionista d’arte, fu un grande ammiratore (e amico) di Picasso, di cui possedeva oltre 30 lavori, ma curiosamente nessuno dei periodi blu e rosa, avendo acquistato pezzi datati dal 1907 in poi, di un’epoca già cubista. Ciononostante sono innumerevoli i quadri e le sculture che passarono per le sue mani e che grazie a lui sono entrate in importanti collezioni private e istituzioni museali. Oggi le stesse opere appartenenti alla collezione Beyeler sono anch’esse esposte al pubblico, in una travolgente sezione dedicata, Picasso Panorama, cosicché la Fondazione svizzera si è trasformata in una sorta di museo temporaneo, tutto dedicato al genio dell’arte.