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September 02 2021
«Son figlio di Omobono e curvo con pazzo abbandono». È il motto dannunziano del guzzista, quello con la tuta sotto la pelle, pronto a cogliere segnali biblici dal più insignificante scricchiolìo di una sospensione. Quell'Omobono non poteva che essere Tenni, il Diavolo nero dell'Isola di Man, primo vincitore non britannico (1937) del leggendario e abbastanza suicida Tourist Trophy; una vita in piega, una vita a cavallo della Moto Guzzi. Avrebbe potuto trionfare due anni prima, ma finì contro la vetrata di un ristorante: era il Valentino Rossi dell'epoca. Lui e il bolide, una cosa sola, un missile leggendario che torna a noi dalle foto seppiate.
Ce n'è una paradossale. Circuito del Littorio a Roma (1933): Tenni scatenato, la Guzzi che urla, un terzo di giro di vantaggio sui comuni mortali. A un certo punto compaiono cartelli con scritto «Rallentare», davanti ai quali ovviamente il campione nato a Tirano e sepolto a Treviso fila via irridente, dando gas. A mostrarli al loro pilota, sempre più pallidi, erano Giorgio Parodi e Carlo Guzzi. I proprietari del marchio, del gioiello di fuoco, consapevoli di avere realizzato una macchina così perfetta da mettere paura anche a loro.
Quel mondo ha cent'anni, come la moto con il simbolo dell'aquila ad ali spiegate che spiccò il volo da Mandello del Lario (su quel ramo manzoniano del lago di Como) per arrivare sulle vette del mito. Un secolo raccontato da un libro, I 100 anni dell'Aquila curato da Carlo Borlenghi e Carlo Zuccoli, con scritti di Pino Allievi, Andrea Vitali e Ornella D'Alessio - Cinquesensi Editore - che attraverso racconti, ricordi e preziose fotografie ripercorre in moto la storia di un brand favoloso e al tempo stesso la storia d'Italia.
Dal Galletto alla Le Mans 850, dall'Airone al Guzzino, dal Trotter allo Stornello, dal V7 Sport al motocarro Alce, il secolo breve del nostro Paese sfila in parata accompagnando una vicenda intrisa di sudore e benzina che nella simbologia, nella piccola realtà iniziale e nel colore rosso della livrea somiglia a quella della Ferrari. Con due ruote in meno ma con la stessa ambizione: nel 1921 la fabbrica davanti al lago ha 29 dipendenti, trent'anni dopo ne conta 1.500 ed è uno dei biglietti da visita dell'Italia nel mondo.
Se il cavallino rampante di Maranello è quello di Francesco Baracca, anche l'aquila di Mandello ha dietro di sé l'orgoglio aeronautico, come se l'epopea italiana della velocità fosse indissolubilmente legata al senso di libertà che solo il volo sa restituire. Il milanese Carlo Guzzi, l'amico e finanziatore genovese Giorgio Parodi (figlio di armatore) e il centauro bresciano Giovanni Ravelli si conoscono durante la Grande guerra nella nascente aeronautica militare. I primi due decidono quell'emblema in ricordo del terzo, pilota di idrovolanti, morto in un incidente aereo nel 1919.
Secondo indizio: Parodi non ha niente da invidiare a Baracca, sfida biplani nemici e guadagna medaglie al valore. Sarà anche richiamato alle armi nel 1940 e abbattuto in Africa su un Caproni 309. Si salva ma perde un occhio e dirà: «Meglio sia successo a me che mi sono potuto curare piuttosto che a qualcun altro senza mezzi». Dove osano le aquile, la Moto Guzzi ha quell'imprinting.
«Il protagonista principale di questo film è Carlo Guzzi, dal quale prese vita l'idea», scrive Pino Allievi, guru del giornalismo sportivo, massimo esperto italiano di motori. «Un eccentico e sregolato mago della meccanica? Per niente. Era un uomo posato, pragmatico, attento alle spese sue e dei futuri utenti, ispirato quanto basta per avere della fabbrica una concezione allargata al benessere di chi ci lavorava, a una fedeltà aziendale che significava valore».
Qui si tocca già il cuore dell'impresa: velocità, genialità, ma anche forte senso di appartenenza. Dovuto alla sensibilità di Guzzi e Parodi, e a un incontro fortunato: uno dei primi clienti del marchio era Camillo Olivetti che avrebbe trasferito l'azienda e la passione per le moto al figlio Adriano, il più illuminato degli imprenditori italiani del dopoguerra. Pure a Mandello, non solo a Ivrea, si materializzano i servizi per la comunità: le scuole tecniche per i dipendenti, l'ambulatorio medico, lo spaccio aziendale, il centro ricreativo, la mensa, la linea di credito per operai e impiegati, il gruppo sportivo, le abitazioni. E premi in denaro a chi offriva alla direzione soluzioni per ridurre i costi di produzione o lanciava idee innovative. Si chiama identità. Come sottolinea Allievi, «la Moto Guzzi ha preceduto i grandi marchi giapponesi anche in questo».
Con le vittorie del Diavolo nero arrivano l'attenzione del mondo e le commesse. La Guzzi diventa un simbolo, il primo testimonial è un influencer un po' più accreditato di Chiara Ferragni: il fisico Enrico Fermi. La forza di quegli uomini è nel saper riconoscere l'eccellenza e l'acquisto vincente non è un nuovo pilota, ma un ingegnere: Giulio Cesare Carcano, laureato al Politecnico di Milano con casa di vacanza a Mandello. È l'uomo della tecnologia, un genio totale: fa vincere gran premi e inventa soluzioni innovative per la produzione. Motori, telai, impianti elettrici, aerodinamica. Nel 1950 crea la prima galleria del vento quando neppure Ferrari, Alfa Romeo e Maserati ne hanno una. Ma Carcano è un leader, non ammette discussioni. La sua più celebre frase è: «Non faccio questo lavoro per vivere. O si fa come dico io, o niente». Quando la ripete ai nuovi proprietari che nel 1966 subentrano a Guzzi e Parodi, viene licenziato. Si consolerà con le barche da Coppa America: «Italia» che sfida il mondo a Fremantle, Australia, è sua.
La storia va veloce come le moto e siamo già dentro altre foto, altri simboli. La Guzzi è il bolide del miracolo economico: Giulio Andretti, Gino Bartali e Fausto Coppi che visitano la fabbrica, i corazzieri che accompagnano le limousine di Charles De Gaulle e Richard Nixon per le vie di Roma, Alberto Sordi che cavalca un Falcone nel film di culto Il vigile conferiscono al marchio di Mandello la dimensione del mito. Arrivano Sophia Loren e Sylva Koscina, il jet set sale sul sellino. C'è Guzzi ovunque, anche il sidecar guidato da Ugo Tognazzi ne Il federale (con il mitico «buca, buca con acqua»), esce dalla catena di montaggio sul lago. E Mario Soldati scrive: «Quanto più da vicino si osserva questa moto, tanto più lontano lei rimanda lo sguardo».
Lontano fino in California, dove negli anni Settanta la polizia di Los Angeles adotta il made in Italy. I Chips hanno in dotazione la V7 Police con il parabrezza antiproiettile, che chiamano goose (oca) perché non riescono a pronunciare la doppia zeta di Guzzi. I purosangue italiani arrivano prima delle Kawasaki e delle Bmw, dopo le Harley Davidson.
Nel 1974 la 850 Eldorado fa il botto: 12 mila esemplari venduti, 4 mila solo negli Stati Uniti. E Clint Eastwood fa salire sulle V7 gli agenti assassini in Una 44 Magnum per l'ispettore Callaghan.
Oggi il «guzzista» più affezionato di Hollywood è Ewan McGregor. Scrive Pino Allievi: «Ci hanno provato in tanti, ripetutamente, ad affossare la Moto Guzzi tramite gestioni incompetenti e scellerate. Non c'è mai riuscito nessuno». Ora l'aquila vola serenamente senza turbolenze dentro il gruppo Piaggio.
Un secolo di storia in un libro, con il ruggito di un motore di culto come colonna sonora. Lo stesso ruggito di quel giorno di 84 anni fa all'isola di Man, quando il radiocronista disse: «Tenni sta curvando con pazzo abbandono, creando dubbi sul fatto che egli possa finire la gara in un pezzo solo». Variabile anatomica non secondaria per chi oggi continua ad accarezzare le curve a bordo di un'icona.