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November 22 2017
UPDATE: Il 21esimo viaggio internazionale di Papa Francesco sarà in Bangladesh e Myanmar. A Dacca il 1 dicembre, Bergoglio vedrà un gruppo di rohingya nel corso di un incontro interreligioso. In Myanmar, il giorno precedente, incontrerà il generale Min Aung Hlaing, capo dell'esercito che ha retto il Paese con pugno di ferro fino al 2015, esercito al quale si deve la costituzione del 2008 tuttora in vigore, fortemente antidemocratica. Francesco è il primo papa a volare in Myanmar al centro delle cronache nel mondo per l'esodo forzato dell'etnia Rohingya costretta ad abbandonare le proprie terre per motivi religiosi. In questo pezzo, pubblicato la prima volta alla fine di agosto, la loro storia e la loro situazione.
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Un gruppo di persone tenta di attraversare un torrente. Per non scivolare sulla roccia scivolosa si forma una catena umana, si tenta di non inciampare sul longyi, la gonna tradizionale birmana.
Sono uomini, donne e bambini della minoranza musulmana Rohingya in fuga verso il Bangladesh per sottrarsi alla controffensiva dell’esercito del Myanmar.
Dopo aver abbandonato i loro villaggi vicino alla costa occidentale del Myanmar, qualcuno riprende con uno smartphone, secondo un’abitudine ormai consolidata quando si tratta di comunicare al mondo esterno il loro destino di oppressione.
La scintilla che ha fatto scaturire l’ultimo giro di vite è l’attacco del 25 agosto da parte di un gruppo di ribelli, la Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), a postazioni della polizia di confine.
Oltre 100 morti il bilancio del primo scontro: militanti dell'Arakan e oltre una decina di agenti. Il copione è lo stesso di dieci mesi fa, quando, l’8 Ottobre 2016, il gruppo è emerso come una nuova forza destabilizzante del Paese.
L'area contrassegnata con il cerchio rosso è lo Stato dell'Arakan (ora Rakhine), Myanmar, abitato dai Rohingya; più a ovest, con il contrassegno blu l'area del Bangladesh dove si trasferiscono i profughi della minoranza musulmana, agosto 2017 (credits: Scribble Maps, Google Maps, Panorama.it)
Nelle testimonianze raccolte, la reazione dell’esercito ha preso la forma di un racconto di crimini di guerra, inclusi presunti stupri, uccisioni arbitrarie e arresti sommari anche di bambini.
Le Nazioni Unite hanno votato in marzo una risoluzione per una missione investigativa su crimini contro l’umanità. Il governo birmano non ha autorizzato l’ingresso ai membri della commissione.
"Era novembre, hanno portato i miei fratelli fuori poi mi hanno spogliata e mi hanno violentata,” ricorda a Panorama.it una ragazza Rohingya che non vuole essere nominata. È di un villaggio nell’area di Maungdaw, mostrando il suo volto ancora grazie a uno smartphone.
L’accesso all’area è vietato a giornalisti e operatori umanitari da mesi, rendendo impossibile qualsiasi verifica dei racconti.
"I militari trattano tutti come ribelli, questo è il problema", dice Abdul Rasheed, un attivista Rohingya a Yangon.
Il governo di Aung San Suu Kyi ha ufficialmente definito i membri di Arsa “terroristi”, cercando un collegamento con gruppi di matrice islamica e proponendo riferimenti all’azione dell’Isis nelle Filippine.
Ma l’organizzazione è categorica nel rigettare l’etichetta di movimento jihadista. Nonostante possibili contatti con la diaspora Rohingya in Arabia Saudita, il gruppo di insorti vuole essere messo sullo stesso piano degli eserciti etnici nel resto del Myanmar e rivendica ora l’indipendenza dello Stato di Arakan. La natura degli attacchi rivela una struttura organizzata e sempre più numerosa, ma condotta con armi piuttosto rudimentali.
Secondo Crisis Group, Arsa era "perfettamente consapevole che gli ultimi attacchi porteranno ad una forte risposta militare e saranno un boomerang politico, come avvenuto nel 2016, fatto che danneggerà enormemente gli abitanti dei villaggi."
L’ambasciatore italiano a Yangon, Giorgio Aliberti, sottolinea come "il recente attacco di estremisti violenti contro posti di polizia e basi dell’esercito birmano rappresenta una grave escalation del conflitto in nord Rakhine e non può essere sottovalutato."
E così ora c’è chi si nasconde nella foresta terrorizzato dalla reazione dei militari, e, in pochissimi giorni, almeno 18mila e 500, secondo le stime dell’Agenzia Onu per le migrazioni, sono riusciti a raggiungere i campi di rifugiati al di là del confine con il Bangladesh, segnato dal fiume Naf, a Cox Bazar. Le testimonianze parlano di colpi sparati a chi cercava di fuggire, mentre anche un gruppo più piccolo di Rakhine buddisti – meno numerosi nell’area – sta scappando dalle violenze.
La vicenda dei Musulmani Rohingya si presenta quindi come la sfida più complessa e esplosiva per il Myanmar, nascente e incompiuta democrazia del Sudest asiatico.
Papa Francesco, confermando la sua visita nel Paese a Novembre, ha chiesto durante l’Angelus di domenica 27 Agosto solidarietà per i Rohingya perseguitati, dando ulteriore visibilità alla vicenda.
Quello in Rakhine non è però l’unico focolaio di tensione fra esercito e gruppi etnici in Myanmar. Il motivo per cui questo decennale conflitto a bassa intensità è più complesso e precario, è la resistenza a riconoscere anche il presupposto della cittadinanza per l’oltre milione di Musulmani in Rakhine, rendendo tortuoso il processo di registrazione, anche là dove è iniziato.
La maggioranza dei Musulmani è nello stato birmano Rakhine da generazioni - in molti casi il risultato di antiche o recenti migrazioni dal confinante Bangladesh, in particolare durante l’epoca del dominio britannico.
Per questa ragione sono visti come immigrati arrivati illegalmente nel Paese. La convivenza con la maggioranza buddista non è sempre stata problematica ma i rapporti si inasprirono durante il regime militare che ha tenuto nella morsa il Paese per 50 anni.
La dittatura "socialista" ha portato al tracollo il Paese, facendo del Rakhine, pur ricco di risorse naturali su cui ora punta la Cina, lo Stato più povero, inasprendo le tensioni ed esasperando la retorica del nazionalismo buddista e di coloro che si sentono vittime di una narrativa che ignora la povertà degli stessi Rakhine buddisti.
Per molti, del resto, furono i militari i veri registi degli scontri del 2012, quando la violenza scoppiata fra Musulmani e Buddisti nella capitale Sittwe ha avuto come risultato la separazione totale delle tue comunità: da allora oltre 100mila Musulmani Rohingya, insieme a un ridotto gruppo di Rakhine, vive isolato in campi per sfollati.
Le condizioni sono tali da farli definire dagli osservatori "campi di internamento": nessuno può uscire se non previa autorizzazione, limitando l’accesso al lavoro, all’istruzione e alle cure sanitarie. Le abitazioni sono precarie, le donne le ultime fra gli emarginati nell’affollamento della segregazione, dove i matrimoni minorili sono in costante aumento.
Migliaia di adulti sono scappati verso Paesi più ricchi della regione finendo nelle mani di trafficanti di uomini; circa 15mila bambini sono nati nei campi e non ne sono mai usciti, secondo un profilo dei campi stilato sotto l’egida delle Nazioni Unite.
Dopo la vittoria a valanga nelle elezioni del 2015, il mondo ha guardato non senza ingenuità alla de facto leader Aung San Suu Kyi come la soluzione del problema.
Ma il premio Nobel per la Pace e icona occidentale dei diritti umani si è trovata presto sommersa dalle critiche per la sua mancata presa di posizione morale in difesa dei Rohingya.
La Lady, come viene chiamata, non ha alcun controllo sulle azioni dei militari, che detengono ancora il ministero della Difesa, degli Interni e di Confine.
Ma i segnali arrivati dal suo ufficio sono stati inadeguati se non esplicitamente antagonisti alle aspettative della comunità internazionale, mentre la commissione di inchiesta governativa sui crimini di guerra non è stata giudicata credibile.
Eppure uno dei primi atti del suo governo è stato la nomina dell’ex segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan a capo di una Commissione incaricata di trovare soluzioni per il Rakhine. Alla pubblicazione delle proposte sono immediatamente seguiti gli attacchi dell’Arsa e ora una soluzione appare ancora più lontana.
Ecco perché Gabrielle Aron, specialista in Conflict sensitivity e Peace building in Myanmar, si spinge fino a dire che ora "la più grande minaccia alla stabilità del Paese arriva in questo momento dall’Arsa."
Spetta alla comunità internazionale vigilare affinché le autorità birmane non cadano "nella trappola di una reazione eccessiva," sottolinea l’ambasciatore Aliberti.
Ma la comunità internazionale non sembra essere la priorità né del governo birmano, né dei militari.
Myanmar, viaggio fra i Musulmani perseguitati