Economia
July 19 2013
Il sole splende sul tavoliere d’oro di Matera. Ma dentro no, la luce non arriva. La fabbrica dei cinesi è in un capannone a uso deposito, privo di finestre e di natura. I neon sono sporchi di polvere e di grasso, l’accesso al fondaco annebbia la vista e le idee. Poi gli occhi si abituano. Si notano i fili elettrici scoperti, i banchi da lavoro scalcagnati, il cesso ricavato in uno sgabuzzino di un metro quadro. E poi, ammucchiati alla rinfusa, ci sono gli avanzi di stoffe e pellami, le longarine di ferro, le assi di legno, le viti, i bulloni, i chiodi, i cartoni, gli imballaggi. Ma più del resto disturbano le esalazioni disgustose della colla industriale, che nessuna penna o fotografia potrà mai descrivere. Le narici le avvertono desolate e ne serberanno memoria per sempre.
Il deposito, invece, è nel seminterrato. A questo punto della visita, il tanfo di umido risulta persino gradevole. Mentre la visione del prodotto finito pare un miracolo della volontà. Dal sudicio e dalla penombra i cinesi riescono a tirare fuori divani di (apparente) buona qualità a prezzi inconcepibili per un mobiliere italiano. Una sultana di tre sedute in vera pelle viene venduta a 410 euro trattabili. Materie prime comprese. Il prezzo è all’ingrosso, naturalmente, e si può chiudere tranquillamente a 350 euro.
Per entrare in questo avamposto di Zhejiang in Italia è stato necessario mascherarsi da rivenditore di salotti a Napoli. Perché, in fondo, l’unica preoccupazione dei cinesi è che il loro potenziale cliente partenopeo li paghi per davvero. Chiedono garanzie, se serve la fattura e di che tipo e quantità deve essere la produzione. Chiedono se serve la materia prima o se viene loro fornita. Chiedono se bisogna clonare qualche modello famoso («Abbiamo i campionari di tutte le aziende famose» dice il responsabile della «fabbrica») e offrono persino il trasporto: «Eventualmente, utilizziamo camion anonimi» fa il capo, che per ammiccare dice di amare Napoli e di aver scelto «Gennaro» come nome italiano, incurante di precipitare nel grottesco. Gennaro, infatti, ha un accento marcatamente toscano («Vuoi un ’affè, una hoa-hola?». No grazie, né caffè né Coca-Cola).
Lui e gli altri cinesi arrivano tutti da Prato. Lì la crisi del tessile ha colpito anche la comunità asiatica più numerosa d’Italia. Che senza titubanza alcuna ha cominciato a spostarsi a macchia di leopardo sullo Stivale, a seconda delle necessità produttive. Nella Murgia, la zona del polo del salotto che comprende Matera e un pezzo del Barese, sono arrivati a partire dal 2003. Ora, secondo i dati ufficiali della questura, nei dintorni dei Sassi vivono circa 1.000 cinesi di Prato. Forse sono di più, ma come sempre il numero preciso non è calcolabile.
E poi si vedono in giro raramente, vivono ai margini delle botteghe, in dormitori o (i più fortunati) in appartamenti di risulta, ricavati dalle fabbriche in disuso nelle zone artigianali di Matera: le fantomatiche Paip 1 e Paip 2, dove per Paip si intende «Piano di insediamento attività produttive». Le strade portano nomi evocativi: via delle Arti, dei Mestieri, della Tecnica, fino a un surreale «viale Primo maggio». E già, perché qui lo Statuto dei lavoratori pare un accidente della storia.
Anche la fabbrica dei cinesi è ricavata nei Paip. Si affaccia prepotente sulla valle della Martella, dove c’è uno degli stabilimenti Natuzzi in chiusura per crisi. Il fondatore della Natuzzi è Pasquale, un tempo definito «l’Adriano Olivetti del Sud» per avere di fatto inventato il polo del salotto della Murgia, che rimane il primo in Italia per pezzi prodotti. Ora sindacalisti, operai, sindaci, industriali sono uniti contro di lui. Prorogare dal 15 settembre al 15 ottobre la mobilità per 1.726 dipendenti (su 2.700) della sua holding non è bastato a placare gli animi. E la «guerra delle poltrone» ha un finale ancora tutto da scrivere. Anche nei tribunali.
La denuncia di Pasquale è chiara, riguarda la concorrenza sleale: «Io produco legalmente, non così i miei concorrenti: Chateau d’Ax, Nicoletti, Calia, Poltrone e Sofà. Io spendo 92 centesimi per ogni minuto di lavoro, loro 25 perché si affidano ai terzisti». A quelli, cioè, che lavorano a cottimo, «soprattutto cinesi. A queste condizioni, la mia azienda non può reggere, devo privarmi a malincuore di molta forza lavoro». Risponde, a nome di tutti, Tito Di Maggio, senatore della Repubblica, presidente del Distretto del mobile imbottito e gran capo di Chateau d’Ax nella Murgia attraverso una controllata che si chiama Sofaland: «In passato Pasquale ha fatto grandi cose, ma il nostro modello di business è più innovativo. Ed è legale e garantito. Noi, per esempio, non abbiamo mai chiesto un euro pubblico, a differenza di Natuzzi, per il quale lo Stato da 10 anni paga la cassa integrazione per migliaia di persone». E i cinesi? «Quelli con attività legali sono legali come gli italiani. Quelli illegali sono illegali come gli italiani. Noi ci rivolgiamo soltanto a quelli che si muovono nella legalità».
Il modello Chateau d’Ax (e non solo) si fonda sul marketing. Conta pochissimi dipendenti (soprattutto amministrativi e magazzinieri), spende molto in pubblicità, affida la produzione a società controllate (come, appunto, la Sofaland) che si limitano ad acquistare le materie prime da girare ai terzisti, spesso cinesi. Il modello Natuzzi è più o meno all’opposto: pochissima pubblicità, tanti dipendenti, produzione fatta prevalentemente in casa. Ne deriva un disprezzo «naturale» verso le aziende concorrenti, che Pasquale considera illegali, oltre che protette dal silenzio di istituzioni, sindacalisti e amministratori locali. E però pronti ad aizzare gli operai contro di lui: a Ginosa hanno riempito un intero palazzetto dello sport.
È vero, infatti, che l’organizzazione dei cinesi (e anche di molti italiani, sia chiaro) risulta complessa da abbattere. Si tratta di aziende che cambiano ragione sociale e amministratori mediamente ogni anno, presentano lavoratori tutti assunti con contratti a tempo determinato e spesso part-time anche se lavorano mediamente 18 ore al giorno. Però anche i controlli latitano.
Ogni tanto qualche singolo blitz si fa pure. Ma l’ultima vera «retata» nella zona industriale di Matera risale addirittura al 22 dicembre 2010, quando una maxiispezione del comando interregionale del Nil (Nucleo ispettorato del lavoro) esaminò 22 piccole aziende, di cui 19 cinesi. Risultato: su 180 lavoratori vennero individuati 165 casi irregolari, tutti cinesi, dei quali 11 in nero e uno clandestino.
Quanto al fisco, venne accertata un’evasione per 415 mila euro su 12 imprese, due delle quali italiane. Oltre che svariate violazioni in materia di sicurezza. Sicurezza sul lavoro, naturalmente.
Ecco: il fatto è che questo modello sta imponendosi in tutta la Murgia, sempre più anche tra gli italiani, fino a toccare Altamura, Modugno e Santeramo in Colle. Insomma, incontrare un «Gennaro» non è poi così difficile. Nei luxury hotel girano mediatori pugliesi e lucani ai quali basta chiedere per ottenere un appuntamento in fabbrica. Anzi, pare che i titolari cinesi delle fabbriche quasi attendano un cenno per partire con la vendita. Il cenno arriva e, con i giusti tempi, pure una bottiglia di vino utile per allargare la conversazione. Vito produceva pure lui ma imprenditorialmente è finito, ucciso: «Contro il cottimo cinese non c’è niente da fare. Tre anni fa, quando fallii, me la presi con le banche che mi negavano il credito. Ma la verità è che non c’è concorrenza che tenga, questi sono troppo più disinvolti di me, che pure non sono uno stinco di santo». Denunciare no? «Io i cinesi li detesto, ma che devo fare? Meglio lavorare per loro che fare la fame. E guadagno pure di più, senza avere pensieri».
I mediatori sono tutti ben vestiti, curati nell’aspetto e parlano un ottimo inglese. La lingua serve per gli acquirenti internazionali. Con altri due intermediari, al tavolo accanto ci sono tre clienti australiani intenzionati a scavalcare Natuzzi e tutti gli altri marchi italiani. Vogliono i divani della Murgia per poi appiccicargli un marchio inglese, «Overtop». Un mediatore garantisce: «I miei cinesi producono a 0,18 euro al minuto, 27 euro a pezzo». E alza il calice per brindare all’affare La Chateau d’Ax è avvisata.