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November 20 2014
Sono passati tre anni da quando l’Nba venne meno per la prima volta a uno dei principi su cui gli Usa hanno costruito – a fasi alterne e con alterno successo, sia chiaro – la loro economia, ovvero il libero mercato. Sembrava tutto già fatto: Chris Paul, uno dei playmaker più dominanti della lega, sarebbe passato da New Orleans a Los Angeles, sponda Lakers, all’interno di un giro di scambi che coinvolgeva anche alcuni giocatori degli Houston Rockets.
Fu allora che il Commissioner dell’epoca, David Stern, decise – con il benestare di gran parte dei proprietari della lega – di vietare la trade in quanto ritenuta troppo vantaggiosa per la franchigia di LA che aveva appena vinto due titoli (nel 2009 e nel 2010) e intorno alla quale si vociferava di un possibile arrivo del centro Dwight Howard.
Erano i primi di dicembre 2011 e l’Nba, ai quei tempi proprietaria degli Hornets, fece dirottare il trasferimento di Paul sull’altra franchigia di Los Angeles, i Clippers (dove il play gioca tuttora) condizionando il futuro di tutte e tre le squadre coinvolte nella "mancata trade", e che oggi raccolgono i cocci di una scelta criticata e inedita anche nella lunga storia del campionato di basket professionistico americano.
Infatti se la Longa Manus dell’Nba non si fosse posata su Los Angeles oggi non solo Paul sarebbe ai Lakers, ma New Orleans – che nel frattempo ha cambiato il nome della sua franchigia in Pelicans – avrebbe ricevuto Goran Dragic, Kevin Martin, Luis Scola e la prima scelta di New York al draft 2012. Al contempo Houston avrebbe accolto, con piacere, Paul Gasol e Lamar Odom, finito prima a Dallas e poi in disgrazia tra problemi psicologici e una sfortunata esperienza europea.
Se così fosse stato adesso i Lakers si ritroverebbero con una point guard da 20 punti e 10 assists a partita, e con una leadership che è stata in grado di rivoltare i Clippers facendoli diventare una delle squadre in lizza per la vittoria nella Western Conference. Allo stesso tempo Houston non avrebbe messo le mani su Dwight Howard, che oggi difende i tabelloni del Toyota Center, ma avrebbe un centro da titolo come Gasol e una ala piccola come Odom, che prima dei problemi di depressione era stato l’uomo chiave dei Lakers bicampioni Nba. E che dire di New Orleans, che oggi si ritroverebbe con Goran Dragic – play sloveno cresciuto all’ombra di Nash a Phoenix e poi esploso negli ultimi anni – a giocare un micidiale pick&roll insieme a Anthony Davis, o Luis Scola, con l'infallibile tiratore Kevin Martin a raccogliere gli scarichi sul perimetro.
Se così fosse stato... E invece oggi se Houston non se la passa affatto male grazie all’arrivo di Harden e di Howard, i Lakers annaspano in fondo alla Western Conference dopo una serie di scelte sbagliate tra cui – fa male dirlo, per tutti gli amanti del gioco – lo scambio che ha portato a Los Angeles Steve Nash, che ha giocato 65 partite in 2 stagioni e che quest’anno ha già dato forfait per un infortunio – che presumibilmente metterà fine alla sua carriera – alla schiena.
I Pelicans oggi sono squadra da metà classifica, soprattutto per merito della fortunata lottery del 2012 che ha portato Davis a New Orleans, ma hanno dovuto sopportare i flop di Kaman (che oggi gioca a Portland), Al-Farouq Aminu (anch’esso coinvolto negli scambi “pilotati “da Stern) e soprattutto Gordon, arrivato dai Clippers come possibile crack e caduto in una serie interminabile di infortuni che hanno ridotto la sua resa in campo agli attuali 9 punti a partita con un misero 23% da oltre l’arco.
A distanza di tre anni i si può dire che la scelta di Stern è stata un vero e proprio fallimento – uno dei pochi, a dire il vero, della sua gestione – sia per le franchigie che per l’immagine e la credibilità stessa della lega. Forse la prova che anche loro, sì gli americani, l’Nba e i loro dirigenti possono sbagliare. Anche se difficilmente saranno disposti ad ammetterlo.