News
August 16 2019
Svizzera, terminale della ’ndrangheta. Somiglia a un romanzo di Stieg Larsson, invece è il quadro che la Dia - Direzione investigativa antimafia - fa nella sua relazione semestrale sulle mafie italiane in Europa. Operazioni finanziarie sospette, riciclaggio di capitali illeciti, nuove affiliazioni sono tra le novità più rilevanti dell’evoluzione affaristica della criminalità calabrese al Nord.
Lo confermano anche nove condanne nel processo conclusosi lo scorso marzo dove, grazie all’Operazione Helvetia partita nel 2014, è stato scoperchiato il malaffare oltrefrontiera, radicato in particolare nella città di Frauenfeld «con la piena e diretta rispondenza alla terra d’origine degli affiliati», come rilevato dagli investigatori. Il giudice Fulvio Accurso del tribunale di Locri, nel condannare questi soggetti a pene detentive tra i 10 e i 13 anni, ha scritto: «Tutti gli arrestati avevano fatto parte della locale ’ndrangheta di Frauenfeld, direttamente dipendente da quella di Fabrizia, località in provincia di Vibo Valentia».
Secondo Fedpol, l’ufficio federale di Polizia elvetica, gli ’ndranghetisti sono da tempo «presenti in tutti i Cantoni della Svizzera, in particolare nel Canton Vallese e nel Canton Ticino, senza dimenticare le aree urbane come Basilea e Zurigo». A sottoscriverlo è anche Dimitri Bossalini, comandante della polizia di Locarno e presidente di Polcom Ticino, che già nel 2016 aveva denunciato «l’infiltrazione della criminalità organizzata, che sta erodendo letteralmente il tessuto economico». Parole che trovano conferma anche con quanto emerso dall’Operazione Stige, che nel 2018 ha portato all’arresto di 169 persone dedite al riciclaggio, tra locali di proprietà delle ’ndrine e partecipazioni in società fittizie, nel business dell’enogastonomia.
Quell’operazione ha dimostrato, in particolare, come la cosca Farao-Marincola - la cui base operativa è l’area di Cirò, nel Crotonese - avesse intenzione di investire pesantemente nella Confederazione. Dalle intercettazioni ambientali depositate, per esempio, si è scoperto che Francesco Tallarico, definito «plenipotenziario della cosca» e indicato come capozona di Casabona, dichiarava di possedere «16 locali già nostri» e alcune partecipazioni in quote di altre società terze della «Svizzera interna» (Tallarico è peraltro lo stesso uomo al centro di aspre polemiche per essere stato applaudito dalla folla durante la cresima del figlio lo scorso 10 maggio, dov’era presente grazie a un permesso premio).
Invece Pino Sestito, esponente di spicco della ’ndrangheta di Cirò, citava investimenti in Svizzera nei quali era coinvolto direttamente Mario Donato Ferrazzo, conosciuto come «Topolino», soprannome del capobastone di Mesoraca, piccolo centro del Crotonese alla ribalta delle cronache per una guerra tra clan rivali scoppiata a metà anni Novanta, e più volte citato in inchieste che collegano i mafiosi calabresi con la Svizzera italiana.
«La ’ndrangheta attecchisce di più e meglio dove non esiste il reato di associazione mafiosa, e dove le leggi sono tali da permettere ai criminali di agire con disinvoltura» sostiene Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro e responsabile dell’Operazione Stige per la Dda, la Direzione distrettuale antimafia. Rispondendo alla domanda sul perché la Svizzera sia divenuta una mèta sempre più privilegiata per le attività illecite della mafia calabrese, allarga lo sguardo: «Non solo la Svizzera, anche Francia, Germania, Belgio e Olanda condividono il problema a causa di sistemi giudiziari blandi che, anche quando prevedono questa fattispecie di reato, gli attribuiscono condanne da uno a cinque anni al massimo. Una passeggiata per un mafioso».
Lo attesta anche un recente studio della ricercatrice Madeleine Rossi, pubblicato sui media della Svizzera francese, che evidenzia come le molte inchieste giudiziarie condotte dalle procure italiane abbiano rilevato la tendenza delle mafie nostrane - ’ndrangheta, cosa nostra, le stidde siciliane, la camorra, e la sacra corona unita - a stabilirsi nella prospera Confederazione elvetica, dove disporrebbero di sempre nuovi adepti e opportunità. Il perché è ancora nelle certezze di Gratteri: «In Svizzera non esiste il reato mafioso, l’unica legge assimilabile è l’associazione a delinquere finalizzata al terrorismo, con cui le procure hanno difficoltà ad agire. Tanto è vero che nove volte su dieci le prove di un crimine commesso all’estero le acquisiamo noi in Italia. Lo Spazio Schengen (di cui la Svizzera è parte dal 2008, ndr) aiuta per le rogatorie, ma non basta. Intanto, le attività criminali proliferano».
In effetti, in Svizzera non c’è una vera politica antimafia. Le uniche misure di contrasto alle organizzazioni mafiose s’inseriscono in un’ampia riforma legislativa avviata nel 1988, in seguito alla quale fu introdotto nel codice penale l’articolo 305 bis sul riciclaggio di denaro, cui si aggiunsero poi la partecipazione e il sostegno a un organizzazione criminale (articolo 260 ter), e norme per la confisca di valori patrimoniali di un’organizzazione criminale (art.72), anche all’estero. Mentre nel 1998 è arrivata la legge sul riciclaggio di denaro, che per la prima volta ha messo in discussione il principio «sacro» del segreto bancario, obbligando gli operatori finanziari elvetici a denunciare i sospetti sulla natura illecita dei capitali. Inoltre, sono state create due autorità di controllo federali in materia di riciclaggio.
Il fenomeno d’infiltrazione massiva descritto nella relazione della Dia interessa più settori e ambiti commerciali. Ma il procuratore Gratteri non ha dubbi su quale sia in realtà la vera «missione» del crimine organizzato tra le Alpi: «Le mafie in Europa e in Svizzera sono lì per vendere cocaina, e con quei proventi illeciti possono poi comprare ciò che meglio credono». Eppure, per farlo, devono imbastire un enorme sistema di riciclaggio. Dunque, perché non è stato ancora rilevato? «E facile capire il perché» sostiene ancora il procuratore, «sono tipologie reati che non richiedono il “morto a terra”, e dunque il fenomeno non è percepito dall’opinione pubblica nelle sue dimensioni reali né è ritenuto un pericolo. Del resto, neanche per l’Unione europea la mafia è lontanamente tra le priorità».
Qualche ulteriore dato può aiutare a capire. Tra le tipologie di reati commessi in Svizzera, le organizzazioni criminali si trovano al quinto posto dopo truffa, corruzione, riciclaggio e appropriazione indebita, e poco sopra i reati di amministrazione infedele e in materia di stupefacenti: 1.223 casi tra il 2008 e il 2017, ovvero circa il 9 per cento della «torta» delle attività fuorilegge. A ciò si aggiunga che la Procura federale, incaricata del perseguire i reati in tutta la Svizzera, nonostante un budget di 62 milioni di franchi e 237 inchieste penali avviate, nel 2017 non sia riuscita a confiscare un solo franco.
Del resto, la magistratura dispone di un solo procuratore per le inchieste di mafia. Mentre gli atti parlamentari relativi alle mafie italiane, dal 1973 a oggi, sono appena 57. Le autorità elvetiche minimizzano, escludendo che esista una situazione paragonabile alla Lombardia o alla Germania. Tuttavia, la vigilanza resta alta, almeno nel contrastare l’infiltrazione negli appalti pubblici. Nel 2017 è stato il deputato ticinese Fabio Regazzi a paventare tale rischio, con una durissima presa di posizione contro il consorzio Cossi-Condotte che aveva vinto la gara d’appalto per il lotto principale dalla AlpTransit Gotthard AG, per un valore di un miliardo di franchi. Ricorda il parlamentare del Partito popolare democratico svizzero: «Con un atto formale domandai se le nostre autorità fossero a conoscenza delle vicende giudiziarie del Gruppo Cossi-Condotte in Italia, e soprattutto se fosse ammissibile, o anche solo opportuno, che a un’azienda i cui vertici erano indagati o sotto processo per reati di mafia all’estero fossero attribuiti appalti pubblici per centinaia di milioni di franchi. La risposta fu fumosa, per non dire elusiva». Regazzi propose un emendamento a una norma che permettesse allo Stato di escludere da una procedura di appalto, o rispettivamente revocarlo a un’azienda i cui vertici fossero coinvolti in procedimenti giudiziari per gravi reati: «Purtroppo, il Consiglio degli Stati (la camera alta del Parlamento svizzero, ndr) lo stralciò per motivi che ignoro».
Nel 2018 la Polizia federale è stata il solo ente ad aver elaborato un Piano d’azione nazionale antimafia con il coinvolgimento del Canton Ticino. Un vero contrasto a un fenomeno criminale strutturato è appena agli inizi.
© riproduzione riservata