Economia
September 30 2012
Dici “Italian restaurant” a New York e molto probabilmente conquisterai un cliente. L’appeal della nostra cucina è ancora inossidabile all'estero, e per questo il sogno di aprire un ristorante nella Grande Mela accarezza i desideri di molti italiani.
Ma attenzione: la competizione è altissima. A New York aprono in media mille ristoranti l’anno e anche l’autorevole guida Zagat ha messo in guardia gli avventurosi imprenditori, con il monito di “Don’t do it. Il rischio di fallimento della vostra attività si aggira attorno al 60%”! Un calderone in cui si sono ritrovati progetti promettenti come Ago, ristorante a gestione italiana aperto insieme a personaggi del calibro di Robert De Niro e Ridley Scott e chiuso dopo pochi mesi, o il trasteverino Sora Lella che nella location di Soho non ha bissato il successo romano.
Ma per chi nonostante tutto è pronto a cimentarsi con una delle città più competitive del mondo, ecco i passaggi fondamentali per iniziare:
1. Il Visto
Per lavorare negli States serve un visto ad hoc. Quello più comune è il visto B1 (Visto Business) che serve a preparare il lavoro esplorando le possibilità di investimento, e dura da sei mesi a un anno. Oppure il visto E2 (Visto investitore) che viene rilasciato dimostrando di avere capitali sufficienti oltre che un curriculum e un business plan che dimostrino la competenza nel campo della ristorazione. Altra soluzione è delegare tutto a un consulente in loco e seguire i lavori dall’Italia, visitando gli States con il permesso turistico da 90 giorni.
2. Aprire una società
Passo fondamentale è costituire una società: di solito sarà una LLC, Limited Liability Company, equivalente alla nostra Srl. L’operazione richiede poche settimane e ha un costo di circa 1500 dollari. È fondamentale che uno dei soci abbia un Social Security Number (cioè il nostro codice fiscale, che viene rilasciato sia a residenti negli States che a lavoratori temporanei) che a sua volta renderà la società in grado di avere un Tax Identification Number per pagare le tasse negli States.
3. La ricerca del locale. Meglio Brooklyn
A questo punto inizia la fase più lunga e difficile: la ricerca del locale. “Non sono solo gli italiani a volere aprire un ristorante a New York, ma tutto il mondo – spiega Antonio Pergoli Campanelli, consulente per l’apertura di ristoranti negli Usa e comproprietario di Broken English a Brooklyn - C’è una guerra spietata per la ricerca della location migliore e a questo si aggiunge il fatto che i locatori hanno dei forti benefici nel tenere i locali sfitti perché scaricano la perdita dalle tasse”.
Il periodo medio di ricerca è di solito sei mesi. Ma c’è chi, come ad esempio i fratelli Panella de L’Antica Pesa, sbarcato da Roma a Williamsburg a Brooklyn, ha aspettato anche tre anni.
I prezzi per l’affitto di un locale sono naturalmente stellari. Nella city si toccano vette di 50 mila al mese, e “in generale a Manhattan difficile trovare qualcosa sotto i 18 mila al mese – dice Alessandro Malpassi, consulente e socio della pizzeria Kestè al Village– le buone occasioni si trovano a Brooklyn che è un mercato in grande ascesa con prezzi ancora ragionevoli, che variano dai 6 - 8mila dollari per un locale di medie dimensioni fino ai 15 mila”.
Con i prezzi non si scherza e l’“undercapitalization”, una valutazione minore del capitale da investire, è l’errore più frequente che fanno molti imprenditori, spiega David Rosen, avvocato che ha seguito l’apertura di almeno trenta ristoranti italiani a New York e di in fatto di capital ci capisce (la sua parcella è di 375 dollari l’ora).
Una buona notizia è che, se il locale trovato non è stato in precedenza un ristorante, pizzeria o bar, ma ha avuto altre funzioni, sarà molto più facile e veloce cambiarne la destinazione d’uso rispetto all’Italia che ha centri storici più antichi, estesi e molti più vincoli da rispettare.
4. La Liquor Licence
Un'altra fase spinosa è l’ottenimento della Liquor Licence, che si affianca al permesso per servire il cibo. Viene rilasciata dalla New York State Liquor Autorithy che valuterà la richiesta in base a delle regole molte severe, alcune delle quali datano al post proibizionismo, come il requisito di una distanza minima di 60 metri da chiese, scuole e sinagoghe.
Ma non basta. Il ristorante dovrà ricevere l’approvazione del Community Board, un’organizzazione no profit formata da volontari che lavorano per risolvere dispute e mantenere relazioni pacifiche nel quartiere, una comunità con cui è bene mantenere buoni rapporti per evitare che arrivi la polizia a far controlli quotidiani, come misurare al millimetro la distanza tra la linea dei tavolini all’aperto e la fine del marciapiede.
5. Cercare il personale, costruire una squadra
Una volta aperto bisogna pensare alla scelta del personale. In questo c’è una differenza fondamentale con l’Italia. Negli Usa esiste una vera e propria filiera di ruoli che va dalla cucina alla sala. Nulla è lasciato al caso. Il cliente esige un servizio rapido, efficiente e anche un po’ di simpatia. Tutto risponde a un meccanismo preciso che va da chi taglia le insalate all’aiuto-chef fino allo chef; e da chi, come il bus-boy porta acqua e pane e pulisce i tavoli in sala, fino al runner che porta i piatti ai commensali, e al waiter, il cameriere che negli Usa è un venditore di cibo, e di vino soprattutto, deve conoscere bene il menu e la carta, solleticare l’appetito del cliente e prendere più ordini possibile.
A queste figure si aggiungerà poi un host o hostess che porta i clienti ai tavoli e prende le prenotazioni, un bravo bar tender (il vino e i super alcolici hanno una forte tassazione negli Stati Uniti ma rappresentano anche una delle entrate maggiori di un locale) e infine un manager a sovrintendere, controllare il personale e fare anche da Pr al locale.
Una organizzazione del lavoro radicalmente diversa rispetto ai ristoranti italiani, che rende praticamente impossibile l’apertura di un locale a conduzione familiare.
Una volta aperto il ristorante, pizzeria o bar che sia, bisognerà farlo rodare per almeno tre anni (il "periodo finestra", secondo i coniugi Zagat, entro il quale si rischia di fallire): mantenere sempre altissima la qualità del cibo, il servizio, le public relation, ambire a essere recensiti (positivamente) dal New York Times che decreta l’ascesa o la morte di un locale. ”New York tende a escludere chi arriva da fuori, chi non ha già avuto un’esperienza in città” dice Alessio de Sensi, Wine Director per i locali di Keith McNeilly, da Minetta Tavern a Balthazar“.
Basti pensare che tra i più grandi cuochi di cucina italiana a New York, non c’è n’è uno che sia italiano: Batali ad esempio è italoamericano di seconda generazione e Micheal White è americano del Wiscounsin.
C’è una gavetta dura da fare. Meglio prepararsi prima di arrivare a New York, come racconta Roberto Caporuscio, uno dei più esperti e longevi pizzaioli della Grande Mela: “I miei errori li ho fatti altrove, a Pittsburgh dove sono approdato prima di arrivare qui. Lì ho sbagliato e imparato. Ed è stato un bene, perché mi sono preparato ad una piazza molto più dura come quella di New York".