Tecnologia
September 19 2018
La prima cosa da fare è confermare il proprio indirizzo, inserendo un numero di telefono associato alla strada di casa o richiedere online una cartolina gratuita con il codice d’accesso. Arriverà puntuale entro cinque giorni nella cassetta della posta. Perché a connettere gli utenti di Nextdoor, il social network tra vicini di casa, non ci sono selfie e tramonti languidi come su Instagram o interessi lavorativi reciproci come su LinkedIn, ma il fatto, verificato, di abitare nel medesimo quartiere. Comunanza territoriale che, per prassi e logica, diventa d’interessi e solidarietà reciproca, propiziata da questo ulteriore strumento digitale.
Lanciato negli Stati Uniti nel 2011 e con oltre 200 mila quartieri iscritti anche in Francia, Germania, Paesi Bassi e Gran Bretagna, da oggi arriva in Italia. Almeno ufficialmente, visto che l’applicazione e il sito sono disponibili in fase beta da qualche tempo, raccogliendo già oltre 30 mila utenti. «L’idea di base, l’ispirazione, non è mia. La devo a un professore di Harvard, Robert Putnam, la cui teoria è che il vicinato è il perfetto esempio di social network» racconta a Panorama.it il ceo di Nextdoor Nirav Tolia, radici in Texas, laurea a Stanford, carriera in Yahoo!. Un veterano della Silicon Valley che a San Francisco ha trasformato l’intuizione di Putnam in una storia di successo fondando un Facebook privato, a numero chiuso, ristretto per prossimità geografica.
Il cancello si spalanca se si vive nella stessa area. Punto e basta. Non ci sono spioncini per curiosare nel recinto virtuale altrui. La schermata principale è una bacheca in cui scorrono notizie, un gigantesco gruppo WhatsApp in cui si può conversare con gli iscritti, domandare loro una mano per esigenze pratiche. Se per esempio c’è bisogno di un buon idraulico che non abbia pretese esose («a dire il vero è proprio questa la richiesta più ricorrente» conferma Tolia), per segnalare un cane disperso o se ci si vuole disfare di divani, tavoli o sedie non troppo vecchi e magari qualcuno è disposto a prenderseli gratis, a patto di portarseli via. C’è chi segnala presenze sospette nella zona, chi lamenta la scarsa pulizia dell’area, chi la si butta lì: propone di trovarsi per una festa davanti la Chiesa.
«Per tanti Nextdoor è stato un modo per combattere la solitudine, accorciare le distanze, entrare in contatto con persone incrociate per strada ogni giorno, ma con cui non si è mai avuto modo di conversare nemmeno una volta. E con cui, invece, i punti in comune si scoprono essere tantissimi». Dating senza fini di seduzione tra dirimpettai, a scopo briscola, partita di calcetto o passeggiata al parco. Un’analisi del prestigioso Pew Research Center ha rilevato come il 29 per cento degli americani conosca pochissimi dei propri vicini, il 28 per cento non sa indicare il nome di nemmeno di loro. Un’esasperazione della non socialità. Nextdoor fa cadere questa barriera.
Quanto bene faccia tale modello non è misurabile, ma intuibile: «Vogliamo abbassare il tasso d’isolamento dei singoli, rimettere al centro il concetto di comunità» insiste Tolia, pervaso da un idealismo che sembra sincero. O comunque perfettamente funzionale alla sua piattaforma. Dove non ci sono like, cuoricini ed emoji sbalordite come altrove. Né faccine lacrimevoli o rabbiose. Si può in compenso, schiacciando un bottone, dire grazie a chi è stato d’aiuto: «Perché la vocazione di fondo è anchepratica. C’è un sano utilitarismo al centro». E se qualcuno diluvia troppe parole, esagera con i post, intasa la bacheca di messaggi, lo si ammutolisce con un clic che zittisce i suoi aggiornamenti. Impossibile farlo davanti al portone o all’ascensore: almeno ai bit qualche superpotere è ancora concesso.
Su Nextdoor si entra con nome e cognome, si sta lì in base a dove si vive. «Ma una volta verificato l’indirizzo, non viene reso pubblico. Si decide liberamente se nasconderlo. La privacy è l’architrave della nostra piattaforma dal momento della sua fondazione» sottolinea il ceo. Cha ha oltre 200 dipendenti, ha raccolto nel tempo finanziamenti per circa 250 milioni di dollari e, come Facebook, guadagna dalla pubblicità. Personalizzata sì, ma in una forma soft: «Non in target al singolo individuo, ma di nuovo al quartiere. Per esempio, se sappiamo che un’area conti tanti proprietari di cani, gli utenti vedranno annunci di prodotti per gli animali domestici». Il traffico di banner è scorrevole, non soffocante: «In media circa due a sessione». E, almeno in Italia, non subito. Per adesso, nemmeno uno: «Ci vorrà qualche anno, negli Stati Uniti ne abbiamo attesi cinque prima di introdurre la pubblicità. In generale cerchiamo di non essere avidi».
Con le parole, e nei fatti che chiama a raccolta per confermarle, Tolia sembra insomma l’opposto dell’imprenditore ossessionato dal profitto, disposto a vendere in blocco l’anima digitale dei suoi utenti per qualche spicciolo. «Ho creato Nextdoor per migliorare la vita quotidiana. Non è come Tinder, dove si chiacchiera online anziché farlo davanti a un drink. Né LinkedIn, che può sostituire un incontro di lavoro». O Instagram, in cui s’infiocchetta la propria esistenza per una platea di seguaci che applaude cuoricini: «Su Nextdoor l’idraulico viene a casa tua, così come chi passa a prendersi il divano. O lo compra, ma di sicuro non lo paga con una transizione virtuale o in bitcoin. E magari è l’antipasto di un’amicizia. Più che connessioni, quello che vogliamo creare sono collisioni». Scontri benefici, interazioni con il mondo reale che abita dietro il nostro angolo.