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January 14 2015
Ricordate l’ascensorista? Quel signore in divisa rossa che nei film dei primi Novecento aziona la leva dopo aver selezionato il piano? Un lavoro scomparso, che rende bene l’idea della fine che faranno il 40 per cento dei mestieri in cui l’uomo ha il solo ruolo di interfaccia tra due intelligenze artificiali o due macchine. I robot e i computer solleveranno l’uomo dal ruolo di interfaccia. E molti lavori dall’oggi al domani non esisteranno più. Bisogna crearne di nuovi e anche in fretta.
"Per questo Italia e Francia oggi devono fare qualcosa di simile all’agenda Schröder 2010, anche solo perché lo abbiamo fatto noi" spiega il tedesco Julian Nida-Rümelin, filosofo politico molto popolare in Germania. "Se una grande economia come la Germania ha realizzato questa riforma, è difficile per gli altri ignorare la competizione". Attivo nella critica delle azioni politiche del governo tedesco (dopo l’affare di Edward Snowden tuonò contro la cancelliera Angela Merkel finché questa non cacciò il capo della Cia), insegna all’Università Ludwig-Maximilians di Monaco di Baviera.
Classe 1954, è un attento studioso di politiche europee, con un passato di sinistra ("Ma mai marxista" tiene a sottolineare). In tema di politica europea, il professor Nida-Rümelin sottolinea che oggi il quadro è totalmente diverso da quello della fine degli anni Novanta, quando i leader progressisti intrapresero la famosa "terza via". All’indomani della caduta del Muro di Berlino, cercarono di conciliare il capitalismo liberale e il socialismo democratico; la fede nel libero mercato e il sostegno dello stato nella società e nell’economia. E nella Germania di Gerhard Schröder funzionò. "L’intenzione di Renzi oggi è simile a quella che avevamo più di dieci anni fa" osserva. "Mi ricordo che anche noi non abbiamo avuto subito un piano preciso su cosa cambiare e come. Ma l’idea ferma era che la struttura fosse troppo fissa e che si dovesse cambiare".
Oltre a occupare la poltrona di ministro della Cultura, per Schröder il filosofo è stato centrale nella preparazione teorica e filosofica di quelle che sarebbero poi diventate azioni di governo. Lasciata la carica di ministro, con rammarico del cancelliere ancora in carica, è tornato all’insegnamento della filosofia etica, incarico che altrimenti avrebbe perso. Difficile dire oggi se sia di destra o di sinistra perché lui stesso, in un simposio a Monaco su filosofia e politica a cui ha partecipato insieme a Jürgen Habermas, ha sostenuto che non esistono più una filosofia di destra e una di sinistra. "L’assenza di una precisa distinzione è un vantaggio per la democrazia. Anche se ai politici questo dispiace, perché vorrebbero facili ricette per orientarsi nel quadro attuale, molto più complicato di quello di quindici anni fa".
Panorama lo ha incontrato per un’intervista esclusiva.
In Italia la rievocazione della "terza via" è criticata, in primo luogo, da chi fu un iniziatore di quella esperienza. Massimo D’Alema ha detto che i tempi sono radicalmente cambiati, che ora bisogna riscoprire lo Stato, che l’eccesso di liberalizzazione ha portato enormi disuguaglianze sociali e instabilità economica e che addirittura è stato causa della crisi del 2008. Insomma, un fallimento.
D’Alema ha ragione nella misura in cui la cosiddetta "terza via" ha fatto troppe concessioni al programma neoliberale. In Germania, per esempio, ridurre drasticamente l’aliquota massima e l’imposta sul reddito delle società fu un errore. Eppure l’alternativa sarebbero stati milioni di nuovi disoccupati e l’erosione dei sistemi di garanzie sociali. Per noi tedeschi, dopo l’estenuante riunificazione delle due Germanie, il pacchetto di riforme che ha portato alla liberalizzazione del mercato del lavoro e alla combinazione di misure di promozione del lavoro e di nuove condizioni fu un passo decisivo per la ripresa economica e sociale.
Un esempio?
La cosiddetta "regola della ragionevolezza": l’introduzione dell’obbligo, dopo 12 mesi di disoccupazione, di accettare l’offerta di lavoro indipendentemente dal tipo di qualificazione dell’ultimo lavoro svolto. Fu un grande successo. La disoccupazione fu dimezzata nel giro di pochi anni e ci fu una crescita record delle condizioni sociali di occupazione. La flessibilità può tradursi in ripresa dello stato sociale, anche senza un aumento significativo del Pil. È evidente che l’Italia non può copiare la Germania, perché le condizioni sono differenti. Eppure la riforma del lavoro resta un passo necessario.
Nel suo ultimo libro (La follia dell’accademizzazione), lei sostiene i corsi di formazione rispetto alla laurea a tutti i costi, che ancora in parecchi casi rappresenterebbe solo la realizzazione del sogno piccoloborghese del dopoguerra.
Qui in Europa, a differenza degli Stati Uniti, abbiamo sviluppato un concetto di studio legato alle scienze umanistiche, alla formazione della persona a prescindere dalla formazione professionale. Questo è un bene, ma non per tutti. Un buon sistema di formazione deve assecondare le inclinazioni, le capacità, le vocazioni e i progetti di vita più diversi. Se tutti si indirizzano verso il corso di laurea invece di seguire scuole di specializzazione e formazione professionale (che qui in Germania sono ottime), questo diventa un danno, e fonte di disoccupazione. Un giovane non deve per forza laurearsi per essere qualcuno.
Il modello di lavoro delle start-up americane, finanziate da privati, che si sta diffondendo contemporaneamente all’Information and communication technology (Ict), funzionerà in Europa come sta funzionando negli Stati Uniti?
Nella cultura europea lo stato ha una certa responsabilità sull’economia. Negli Usa l’economia è autonoma. Questo fa la differenza. In più noi siamo meno veloci nella realizzazione delle start-up. Non possiamo imitare quel modello così com’è: da noi non funzionerebbe.
Nell’era della globalizzazione, con Google e Facebook sempre più presenti, si fa difficoltà a trovare un stanno ridisegnando economia e politica.
Queste aziende stanno fissando le regole del gioco. Se l’Europa cede e accetta di giocare secondo le loro regole, perde tutto. Stiamo lasciando fare a loro le infrastrutture mondiali. Ciò non è ammissibile. Non è compito di un’azienda stabilire le regole e noi non dobbiamo lasciarglielo fare. L’alternativa è definire le nostre regole. Sviluppare, per esempio, un progetto per un Google europeo, come ha fatto la Cina.
Che cosa pensa del patto transatlantico, il Ttip, il partenariato per il commercio e gli investimenti tra Europa e Usa? Si parla di una ricaduta positiva per 120 miliardi di euro...
Sono molto scettico. Escludere la Russia significherebbe erigere un altro muro, sebbene di natura diversa, in Europa. Un nuovo Est e un nuovo Ovest. E questo è molto pericoloso. Tra 10 anni un’economia gigantesca come quella cinese, vedendo questa nuova realtà potrebbe pensare di stringere un patto economico con la Russia, che potrebbe portare a situazioni anche peggiori di quelle viste nel passato. E poi quale ruolo avrebbe la cultura in questo patto? Negli Usa la cultura non ha a che fare con lo stato. In Europa è finanziata dallo stato. Escludere la struttura culturale dal patto sarebbe una rovina per l’Europa e per il turismo.
Lei ha fiducia nell’Europa, ma i populismi stanno prendendo forza. Marine Le Pen vince nei sondaggi...
C’è un movimento antieuropeo di destra e di sinistra. Gran parte dello scetticismo che la destra usa per vincere le elezioni è motivato: abbiamo un problema. La paura di perdere la possibilità di controllare quanto accade in politica è giustificata. Bisogna agire in modo da evitare il rischio di ritrovarsi con uno stato europeo, ma senza democrazia.