Non è un paese per giovani – La recensione
Sono gli anni del “dis”. Del disambientamento, della disambiguazione. Dei suffissi e dei prefissi. Senza che, peraltro, ci sia davvero qualcosa di fisso.
Su queste premesse Non è un paese per giovani (uscita in sala 23 marzo) ha un titolo di quelli che si definiscono “programmatici”. Riformulando e parafrasando quello celebre dei fratelli Coen in termini di ribaltamento generazionale, Giovanni Veronesi arriva al suo sedicesimo film da regista con un occhio al malessere giovanile e un altro occhio all’espatrio rovesciato, raccontando a suo modo la spinta centrifuga che accompagna dei ragazzi italiani in una scelta d’avventurose esperienze all’estero. Pur di trovare una plausibile e remunerativa ragione di vita.
Quegli strani incontri
Ecco così la storia di due cervelli migranti, Sandro (Filippo Scicchitano), figlio del giornalaio Cesare (Sergio Rubini) e Luciano (Giovanni Anzaldo) che invece è figlio d’un giornalista: si trovano e si conoscono facendo i camerieri in un ristorante e decidono di aprirne uno per proprio conto, di ristorante, non qua ma a Cuba, dove intravedono certe caratteristiche di nuova frontiera e terra promessa, in apparenza capaci di garantir loro un’intraprendenza imprenditoriale altrimenti inabbordabile. Diversissimi fra loro (titubante, gentile, anelante scrittore è Sandro; ardimentoso, energico e umbratile è Luciano) s’imbarcano nell’avventura approdando a L’Avana dove li accoglie una ragazza bizzarra e vitale, Nora (Sara Serraiocco), che è un po’ un segno del fato, a scandire come un metronomo i tempi del loro andare. L’altro incontro saliente e suo modo rocambolesco è con un altro “inevitabile” italiano che vive colà, l’emigrato siciliano dallo strano nome Euro60 (Nino Frassica), arruffone e mezzo impostore, furbo e teatrale.
Se le strade si dividono
Tutto facile? Sembra di sì, all’inizio. Bella la spiaggia dove si vagheggia il restaurant con tanto di ricercatissimo (a Cuba) wi-fi, promettenti le prospettive. Se non che le strade dei due ragazzi, che sembravano saldamente intrecciate, paiono dividersi quando al coerente procedere di Sandro verso la sua doppia mèta – quella comune del food e quella personale della creatività letteraria - si sovrappone il fosco deragliamento di Luciano, che si scopre indomito e crudele pugile, verso il mondo della boxe clandestina, tra sangue, pestaggi, rum, sigari e scommesse.
Divaricazione drammatica. Che apre le porte ad un epilogo poco allineato alle premesse, sul quale è d’obbligo, come per ogni finale, non informare lo spettatore. In capo ad un racconto che prende spunto diretto da un popolare programma di Radio 2 – stesso titolo – dedicato a quei ragazzi che hanno deciso di lasciare l’Italia per trovare fortuna all’estero; e dove lo stesso Veronesi ha messo più di un piede trasferendone poi l’ispirazione al cinema (sua anche la sceneggiatura, scritta insieme con Ilaria Macchia e Andrea Paolo Massara) perfino con una serie d’interviste filmate, dal vero e posizionate ai poli del racconto di finzione, ad alcuni giovani che hanno affrontato l’esperienza fuggiasca.
Originalità e sovrabbondanza
Risultato leggermente disarmonico per un in film irrequieto, in molte parti inaspettato, generoso, dilettevole e perfino formativo, in altre abbastanza scontato, prevedibile e irrisolto. Ordinariamente si direbbe riuscito a metà. Volendo essere un po’ più precisi, si parla di una storia che segue la traccia sbilenca e in sé originale e imponderabile della peripezia: più incline a lasciare la strada del racconto strutturato e plausibile a beneficio dell’eccesso, del barocchismo narrativo, della sovrabbondanza, in definitiva dell’enfasi. Beninteso, senza con questo trascurare vivacità, vigorìa, sentimenti e colori forti, a momenti rabbia. Specie nei caratteri dei personaggi i quali, al di là di alcuni passaggi davvero sopra le righe, restano bene incisi, ciascuno con felici modi di recitazione, segnatamente Filippo Scicchitano nella parte di Sandro e Sara Serraiocco in quella di Nora, probabilmente più complessa e prospera di sfumature rispetto alle altre.
Lungo questo profilo frastagliato pare di scorgere citazioni ed evocazioni sparse, riferimenti visuali, accostamenti più o meno evidenti. Come non pensare a Fight Club di David Fincher davanti alle scazzottate e al volto tumefatto di Luciano o a Puerto Escondido di Gabriele Salvatores in quell’esotismo un po’ stralunato e polveroso di Cuba? Non sembrino richiami e rimandi troppo voluti, però; si direbbero anzi involontari, indotti dal procedere degli eventi, trascinati dalle correnti del racconto. Insomma di quellecomponentidelle quali non si può fare a meno quando si mettono nel piatto certi temi e i loro, spesso ineludibili, sviluppi. A proposito dei quali e della loro “morale” vien da chiedersi se davvero valga la pena lasciare questo dannato Paese.
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