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(Ansa)
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Norme processuali e situazione psicologica della vittima. Cosa comportano le domande nei processi per stupro

«Perché non ha urlato?», «Perché non si è divincolata?», «Perché non ha usato i denti?», «Se lei aveva le gambe piegate, come ha fatto a sfilarle gli slip?». Sono queste le domande rivolte alla presunta vittima di violenza sessuale nel processo che vede imputati per l’accusa di stupro Ciro Grillo, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Domande poste dall’avvocato Antonella Cuccureddu, che difende Corsiglia, che hanno scatenato furiose polemiche e diviso tra chi le ritiene esagerate per non dire offensive e chi invece ritiene siano parti naturali di un'azione processuale e giudiziaria.

«La diffusione dell'informazione delle domande fatte rischia di rendere ancora più complessa la possibilità da parte delle vittime di denunciare situazioni di violenza. La cultura del rispetto della donna passa attraverso la responsabilità di tutti»- ci spiega lo psichiatra Salvo Rullo di Ecos

Cosa ne pensa di queste famose domande rivolte alla vittima, molto intime?

«Ho letto alcune delle domande fatte dalla difesa dell'imputato alla vittima e soprattutto ho letto le affermazioni della ragazza al termine della deposizione. La rievocazione della violenza subita é a volte più dolorosa dell'episodio stesso.. Ci vorrebbe una grande delicatezza ed un grande rispetto da parte di chi formula le domande per non accentuare il vissuto emotivo della vittima e non alterare la ricostruzione dei fatti».

Cosa avviene in una vittima di stupro?

«Durante una violenza é molto frequente un atteggiamento di paralisi e dissociazione emotiva da ciò che si sta vivendo. Solo dopo un certo lasso di tempo si ha la capacità di rievocazione lucida dell'accaduto, ma la reazione emotiva é differente da persona a persona».

Ma l’avvocato Cuccureddu da un un punto di vista formale poteva farlo? A risponderci il penalista Daniele Bocciolini

«Nel nostro ordinamento la prova si forma nel processo, nel contraddittorio delle parti. In questo caso, la Collega che assiste uno degli imputati era in controesame, mentre interrogava la persona offesa. Per questo motivo, era nel pieno esercizio della sua funzione difensiva» commenta Bocciolini.

Non ci sono domande vietate?

«Secondo il nostro Codice le uniche domande vietate sono le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposta, e quelle suggestive (ovvero le domande che tendono a suggerire le risposte), che peraltro sono vietate solo nell'esame e non nel controesame, posto che tale ultima modalità serve proprio a saggiare l'attendibilità del testePeraltro, le altre parti, nel corso dell’esame possono fare opposizione nel caso in cui si ritenga inopportuna la presentazione di qualche domanda ed è comunque il Giudice a doversi pronunciare circa l’ammissibilità o meno della domanda».

Qual era lo scopo delle domande?

«Nel caso di specie ha fatto discutere qualche passaggio (riportato parzialmente) che sembrerebbe insinuare il sospetto che la persona offesa non si sia “difesa”, così esponendola a una sorta di vittimizzazione secondaria. Ma in questo accertamento, per quanto possa essere “eticamente” difficile da tollerare, consiste proprio l’oggetto del processo finalizzato alla corretta ricostruzione dei fatti».

Quanto è importante il linguaggio anche nelle aule?

«In generale l’Avvocatura così come la magistratura svolgono un ruolo fondamentale affinché i processi civili e penali possano celebrarsi privi da pregiudizi e stereotipi. Mai come nella nostra professione la parola e il suo utilizzo sono fondamentali. Nell’ambito dei processi come questo, per violenza sulle donne abbiamo il dovere quantomeno morale di tutelare i diritti delle persone offese, troppo spesso colpevolizzate, sottoposte a incalzanti domande sulle abitudini sessuali e sulla vita privata. Sono passati, infatti, tanti anni per fortuna da quando questo tipo di reato era un reato contro la morale pubblica, come se la dignità della donna fosse una cosa secondaria. A mio sommesso giudizio, andrebbe rivisto l’intero ordinamento, rimettendo al centro la (presunta) vittima».

Come si può fare?

«Per i giudici di merito spesso è ancora difficile stabilire quando si configura la violenza perché in alcuni casi può non essere chiaro se l’uomo abbia correttamente interpretato la volontà della donna. Ma in questi casi la “prova diabolica” non può e non deve - a mio sommesso giudizio - essere rimessa sulla persona offesa, le dichiarazioni della quale anche in assenza di riscontri possono essere sufficienti a fondare l’affermazione della penale responsabilità. La donna non può essere vittima due volte. Secondo l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità, la rilevanza penale di un atto sessuale imposto non può ritenersi condizionata alla manifestazione di un dissenso da parte della vittima; al contrario, essa viene meno soltanto in presenza di «segni chiari ed univoci» di consenso da parte di quest’ultima. Solo in questi casi la condotta non è punibile. Anche dal punto di vista psicologico dell’uomo, è sufficiente che lo stesso abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte della donna al compimento degli atti sessuali a suo carico; ne consegue che è irrilevante l’eventuale errore sull’espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato. Si tratterebbe di un errore inescusabile. Questo caso richiama l’attenzione sulla necessità di una riforma legislativa che incentri la fattispecie di violenza sessuale non solo sul concetto di “costringimento” spesso fuorviante ma sulla mancanza di consenso della vittima. Va detto chiaramente che c’è stupro tutte le volte che manca il consenso. Un intervento in questa direzione rappresenta per l’Italia un impegno assunto nel 2013 mediante la ratifica della Convenzione di Istanbul e tutt’oggi inadempiuto. A suggerire una riforma in questo senso è anche il rapporto speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne del 2021. Anche l’Europa invita il legislatore a una definizione più chiara».

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