Novant'anni fa, Enzo Bearzot

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RUBEN RUIZ/AFP/Getty Images
Una foto del 1986 con Enzo Bearzot in Messico

“Garibaldi del calcio”, la definizione più bella su Enzo Bearzot l’ha coniata Giovanni Trapattoni, qualche anno fa in un parallelismo tra calcio e Risorgimento. “Con un gruppo di fedelissimi, come i mille di Garibaldi, ha unificato l’Italia, vincendo il Mundial ’82, quando nessuno ci credeva”. Lui, Bearzot, classe 1927, oggi avrebbe compiuto 90 anni.

Per tutti era il "Vecio", come lo aveva curiosamente soprannominato il suo cantore Giovanni Arpino, in “Azzurro tenebra”. Curioso, perché all’epoca Bearzot, che era il vice del ct Ferruccio Valcareggi, era un quarantasettenne tutt’altro che vecchio. Il “Vecio” era uno dei protagonisti, insieme con Arp, Bibì, Walf, Grangiuàn, Gauloise e Giacinto di uno dei capisaldi della letteratura sportiva, dove viene rievocata la disfatta del Mondiale tedesco del 1974, quando – parole di “San Dino” Zoff - non si riuscì ad amalgamare la generazione ormai sfiorita di Messico ’70 (Rivera, Mazzola, Burgnich Riva), con quella dei talenti emergenti (Causio, Capello, Chinaglia).

L'uomo

La storia di Bearzot parte dalla bassa friulana, a Joannis, frazione di territorio poi congiuntasi ad Aiello del Friuli. Figlio di un direttore di banca, per Enzo si prospettava un tranquillo avvenire da farmacista, se la passione per il pallone non lo avesse portato a lasciare gli studi liceali. Senza rinunciare però al piacere della lettura dei classici greci e degli autori della sua terra come Umberto Saba, Carlo Sgorlon e Pier Paolo Pasolini, come ha ricordato l’amico Italo Cucci.

Gli interessi letterari di Bearzot andavano anche oltre i confini nazionali, come raccontò lui stesso alla Stampa nel ‘79: “leggo soprattutto poesie e in questo momento un turco: Nazim Hikmet. È un innamoramento che dura da tempo. E continuo a meditarci”. Una preferenza che, dietro l’aspetto burbero, rivela come Bearzot nascondesse un animo dolce e, anche, romantico. A dispetto di quel naso schiacciato per tre rotture del setto in campo (“l’ho tenuto cosi, una specie di medaglia se non al valore perlomeno al coraggio”).

Non disdegnava neppure i romanzi russi anche se poi confesserà: “quando ero studente, leggevo Dostoevskij, intere pagine per una descrizione. A quei tempi non si leggeva Hemingway, quando lo lessi ne rimasi affascinato: le descrizioni erano lunghe una riga. Il calcio che mi piace non è Dostoevskij, è Hemingway”.

Il calciatore

Da calciatore, il Vecio era un buon mediano, pur se “le basi tecniche erano poca roba”, come disse Benito Lorenzi, detto Veleno, suo compagno di squadra nell’Inter. I suoi anni migliori li trascorse in maglia granata, dove disputò nove campionati, gli ultimi da capitano. "Era un giocatore di grande temperamento, un avversario difficile, uno di quelli che non vorresti mai incontrare. Tagliato su misura per il Torino” la descrizione che ne fece Cesare Maldini, triestino, suo vice in Spagna. Una sola volta in carriera Bearzot indossò la maglia azzurra, in una sfortunata gara contro l’Ungheria, dove il suo diretto avversario, Ferenc Puskas, segnò anche un gol.

Il tecnico

Chiusa la carriera da calciatore, fu un altro triestino, Nereo Rocco, suo allenatore al Torino, a spronarlo a intraprendere quella di tecnico: “bruto mona, quand’è che ti scominzi a darme una man?”. Iniziò così a seguire i giovani granata della De Martino, come si chiamava allora la formazione Primavera. Quando Rocco lasciò il Piemonte, però, Bearzot non riuscì a legare con il successore Edmondo Fabbri e decise di trasferirsi a Prato, ad allenare la prima squadra in serie C.

Venne così notato dai tecnici della Federcalcio che gli proposero di entrare nello staff degli allenatori federali, dove incrociò la strada con l’ennesimo triestino, Ferruccio Valcareggi. Enzo considerava Uccio il suo “fratello maggiore” e al suo fianco partecipò ai mondiali di Messico ’70 e Germania ’74 (quelli, appunto, di Azzurro tenebra). Sandro Mazzola ne ha un ricordo molto dolce: “fu il primo a venirmi a consolare negli spogliatoi nella famosa partita Italia-Germania 4-3, quando ero arrabbiatissimo per la sostituzione. E quando per la prima volta giocai contro il Torino, lui era il capitano granata e mi regalò la maglietta di mio papà Valentino. Fu un'emozione grandissima”.

Il ct

Nel ’75 Bearzot venne promosso alla guida degli azzurri juniores, gli under 23. Qui convocò in due occasioni anche Marcello Lippi, libero della Sampdoria (Italia-Israele 2-0, e Austria-Italia 2-1). Due anni più tardi l’investitura alla Nazionale maggiore, con un anno di tempo per preparare i Mondiali argentini. Qui, il Vecio mise in luce le sue straordinarie qualità di talent scout (Cabrini, Tardelli, Rossi) e di creatore di un gruppo coeso e solidale.

Grande amante di musica jazz, nella sua imperdibile biografia “Il romanzo del Vecio”, scritta da Gigi Garanzini, così spiegava il suo concetto di armonia: “se la squadra è l’orchestra, ed è quella, non cambia, cambia invece di volta in volta il tema musicale. Che è l’avversario: dunque va affrontato, suonato, ogni volta in modo diverso. C’è una base armonica, che va rispettata e corrisponde al sistema di gioco. Ma in questo ambito ciascuno ha la possibilità di esaltare le sue qualità personali, che danno lustro alla prestazione collettiva. La batteria dà i tempi di fondo, un po’ come il regista che detta le cadenze del gioco, il sax può essere il fantasista, il contrabbasso è il libero, capace di difendere ma anche di offendere, la tromba è il goleador. Tu che dirigi, fai in maniera che i singoli interpreti si muovano entro il filo conduttore della musica e si adattino di volta e in volta al pezzo da suonare, così come alla partita da giocare. Ma sempre in funzione dell’assolo del solista, perché è quello che ti mette i brividi ed è grazie a quello che si vincono le partite”.

Curiosamente, pur essendo un ex bandiera granata, Bearzot si affidò ad un blocco juventino, a discapito proprio di calciatori torinisti: il barone Causio preferito a Claudio Sala, Roberto Bettega a Paolo Pulici, Dino Zoff a Luciano Castellini, Marco Tardelli e Romeo Benetti sopra a Eraldo Pecci e Patrizio Sala.

Per molti commentatori la Nazionale argentina espresse un calcio migliore di quella campione del mondo. Nonostante il calcio piacevole e pratico – mondiale terminato da imbattuti – Bearzot fu lungamente osteggiato dalla critica sportiva nei mesi precedenti al Mondiale spagnolo. “Armata Brancazot” era uno dei riferimenti più cortesi che venivano rivolti alla nazionale azzurra e al suo selezionatore, colpevole di non convocare giocatori come Roberto Pruzzo ed Evaristo Beccalossi.

E dire che Bearzot, per amore verso la maglia azzurra, aveva rifiutato anche una ricca proposta dell’Arsenal. Sotto assedio mediatico, la squadra decise per un protettivo silenzio stampa, affidando le uniche laconiche dichiarazioni al capitano Zoff, altro friulano. Come è andata finire, è storia nota, con un andamento in crescendo, tanto che lo stesso ct disse successivamente di essersi sentito campione del mondo già dopo la vittoria con il Brasile “perché la Polonia l’avevamo già incontrata, sbagliando un sacco di gol e i tedeschi erano potenti ma non veloci. Forse avremmo avuto più difficoltà con la Francia”.

E chissà, il Vecio, cosa avrebbe risposto a Zico, che pochi anni fa dichiarò di considerare la vittoria dell’Italia ’82 un punto di non ritorno sull’evoluzione (o, meglio, involuzione) del gioco del calcio: “sono state messe le basi ad un calcio dove occorre conseguire il risultato a qualsiasi costo, fondato sulla distruzione del gioco avversario e sul fallo sistematico”. Con grazia e ironia, Bearzot, forse, gli avrebbe fatto notare come il 2-0 di Tardelli contro la Germania, arrivò dopo un lungo scambio in area tedesca tra due difensori come Bergomi e Scirea. Alla faccia del difensivismo.

Il calcio spesso è stato irriconoscente e con il Vecio lo ha dimostrato, non perdonandogli il deludente Mondiale successivo, dove Bearzot commise l’errore di non rinnovare la squadra, per una sorta di debito di riconoscenza verso i suoi ragazzi.

Peccato non aver tributato il giusto spazio ad un uomo serio, dotato di senso della misura e modestia nel suo lavoro, portato avanti con la dignità e l’eleganza di un hombre vertical. Come ha ricordato Tardelli all’indomani della sua scomparsa sette anni fa, il 21 dicembre (stessa data della morte di Vittorio Pozzo): “era severo, rude, a tratti intrattabile, ma con una grande calma interiore. Un uomo bellissimo che viveva d’erba e cuoio”.

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