Economia
June 01 2015
In Cina ci sono 27 centrali nucleari attive e 24 in costruzione. O almeno questa è la stima dei centri di ricerca che lavorano per il Governo. L'India ne ha 21 operative e un numero non ben precisato di impianti da costruire. In Giappone oltre 40 dei reattori spenti dopo il disastro di Fukushima del 2011 sono tornati in funzione, e i fondi per costruire nuovi impianti di ultimissima generazione sono già stati stanziati. Cambogia, Indonesia, Thailandia e Vietnam si sono posti l'obiettivo di trasformarsi in potenze nucleari entro il 2020. Malesia e Filippine si sono concesse un paio di anni in più per tagliare lo stesso traguardo, e il Myanmar ha scelto di appoggiarsi a Mosca per compiere qualche passo avanti dal punto di vista dell'autosufficienza energetica, visto che nessuna altra nazione pare essere disposta ad aiutarla.
La corsa asiatica al nucleare
Numeri alla mano, è evidente che la corsa asiatica al nucleare è iniziata con uno sprint, e qualcuno in occidente inizia a chiedersi se sia più conveniente tentare di frenare le ambizioni della regione per i rischi che queste comportano a livello di sicurezza regionale e globale, o lasciarsi trascinare in un business certamente redditizio che per tante ragioni diverse andrà avanti comunque, nella speranza che il coinvolgimento di attori occidentali nello stesso risulti fruttuoso non solo in termini di profitti, ma anche dal punto di vista del contenimento dei rischi.
Un paio di premesse
Per inquadrare il problema della corsa asiatica al nucleare servono tre premesse:
1) Fabbisogno energetico. A prescindere dall'impatto che la crisi finanziaria internazionale ha avuto su di loro, tutti i paesi asiatici continuano a crescere molto in fretta, e per mantenere questi ritmi hanno bisogno di garantirsi un approvvigionamento costante di risorse energetiche. Non solo: popolazioni particolarmente numerose che i governi riescono a rendere anno dopo anno sempre meno povere sviluppano nel tempo necessità e abitudini che, per essere soddisfatte, hanno bisogno di energia. Eppure, mentre la domanda esplode, l'offerta si fa sempre meno affidabile. Da un lato, petrolio e gas naturale sono una risorsa finita e da importare dall'estero, e in Asia ricordano tutti fin troppo bene che l'eccessiva dipendenza dall'estero dal punto di vista energetico può essere rischiosa: sui libri di storia occidentali si legge che gli Stati Uniti furono costretti a entrare nel secondo conflitto mondiale a seguito dell'attacco a sorpresa di Pearl Harbor, il 7 dicembre del 1941. Su quelli asiatici si ricorda come Tokyo non poté fare a meno di attaccare il nemico che aveva cercato di paralizzarla bloccando le esportazioni energetiche verso il paese. Dall'altro, l'alternativa delle rinnovabili, anche se considerata interessante, allo stato attuale non permette di garantire l'autosufficienza. Quindi investire nelle energie alternative è utile, ma non basta a soddisfare le ambizioni degli emergenti orientali. Che, per stare tranquilli, non possono fare altro che buttarsi sul nucleare.
2) Sicurezza. Il disastro di Fukushima ha riportato in auge il dibattito sull'opportunità su una tecnologia che ha almeno tre problemi. In caso di incidente, potrebbe creare danni enormi, come è successo sia in Giappone sia a Chernobyl (Ucraina) nel 1986 sia a Three Miles Island (Stati Uniti) nel 1979, solo per citare gli incidenti più famosi. Non è ancora stato individuato un sistema economicamente vantaggioso per smaltire le scorie, e il rischio che lo sviluppo dell'energia nucleare si trasformi in un volano per la produzione di armi nucleari é per tanti sempre all'orizzonte. Eppure, studi più recenti hanno dimostrato che gli impianti di ultima generazione sono in grado di garantire un livello di sicurezza elevatissimo, e che la maggior parte dei siti in cui si sono verificati incidenti, Fukushima inclusa, non erano a norma. Ancora, pare che queste nuove strutture siano in grado di produrre non solo meno scorie, ma anche scarti più difficili da trasformare in armi di distruzione di massa.
3) Inquinamento. Se la sicurezza economica e la promessa di un maggiore benessere diffuso potrebbero bastare a convincere le diverse popolazioni asiatiche ad appoggiare le ambizioni nucleari dei rispettivi governi, non va dimenticato che questi ultimi dispongono anche di un'altra carta da giocare per conquistare il consenso dei cittadini: l'inquinamento. Sottolineando quanto le centrali potrebbero aiutare a risolvere un problema ormai diventato insostenibile producendo energia pulita.
La politica di Stati Uniti e Australia
Queste tre premesse sono più che sufficienti per spiegare come mai la corsa asiatica al nucleare non potrà essere interrotta. Ecco perché due paesi sempre a caccia di nuove opportunità economiche da sfruttare e che l'Asia la conoscono bene hanno deciso di rivedere la propria posizione sul nucleare per sfruttare le opportunità che offre l'Oriente e, contemporaneamente, tentare di fare in modo che il settore resti effettivamente sicuro. Stiamo parlando di Stati Uniti e Australia, e in particolare del modi in cui hanno iniziato a muoversi per andare incontro alle necessità energetiche di questa enorme regione che, pur volendo investire in energia nucleare, non ha ne' le materie prime ne' le capacità tecniche per farlo.
A colmare la prima lacuna ha provveduto l'Australia, il paese che ha il controllo della maggior parte delle riserve di uranio del pianeta (31 per cento), e dove queste ultime sono non solo di altissima qualità, ma anche facilmente accessibili. Le esportazioni di uranio australiane stanno aumentando molto rapidamente e le stime governative hanno previsto una crescita del 20 per cento tra il 2015 e il 2018. Il peso della Cina tra i paesi di destinazione è progressivamente cresciuto, e appena un paio di mesi fa il premier di Canberra ha trovato l'accordo con il suo omologo indiano per vendere questa preziosa risorsa anche nel Subcontinente.
Il caso dell'India è particolarmente controverso perché New Delhi non ha mai firmato il Trattato di Non-proliferazione nucleare, e per questo motivo ogni sviluppo di questa tecnologia, anche se per fini pacifici, dovrebbe essere considerato fuori discussione. E invece nel 2005 furono proprio gli Stati Uniti a ipotizzare un nuovo accordo che permettesse all'India di garantire al paese l'autosufficienza energetica col nucleare, e ci sono voluti dieci anni e due nuovi leader, Barack Obama e Narendra Modi, per renderlo definitivamente operativo. Aprendo opportunità enormi per gli operatori americani sul territorio indiano. Lo stesso è successo in Cina, dove meno di una decina di giorni fa la rinegoziazione di un accordo di cooperazione sul nucleare tra Washington e Pechino è passata quasi sotto silenzio. Eppure, quest'ultimo permetterà alla superpotenza asiatica acquistare ancora più reattori dagli Stati Uniti e di approfondire lo scambio di conoscenze, materiali e tecnologie nel settore.
La maschera della sicurezza
Quindi insomma, dietro la maschera della sicurezza sembrano nascondersi opportunità enormi che alcune potenze hanno già capito come sfruttare. Del resto, quando l'accordo con la Cina è stato rinnovato il presidente americano è stato molto chiaro, sottolineando quanto sarebbe stato sciocco per il paese tirarsi indietro. "Lo sviluppo nucleare della Cina è inarrestabile. Se non lo appoggeremo, lo farà certamente qualche altro paese al nostro posto. E a noi non conviene che questo succeda".