Televisione
July 04 2022
Luglio, tempo di nuovi palinsesti e tempo di bilanci per la televisione italiana. In attesa di scoprire che assi si giocheranno La7, Sky e il gruppo Discovery-Warner, con le novità annunciate in settimana da Rai e Mediaset è già possibile cominciare a capire come sarà la prossima stagione televisiva e soprattutto tracciare un quadro di quella che si è appena conclusa. Ed è un risultato per certi versi sorprendente: la tv generalista se la passa meno male del previsto, ma l’atteggiamento troppo difensivo degli editori, il “grande spauracchio” delle piattaforme e l’accelerazione delle tecnologie rendono il terreno ancora più scivoloso.
La tv generalista è morta, viva la tv generalista. Su come se la passi la televisione italiana si discute da anni e i dati “drogati” da due anni di pandemia hanno fatto compiere negli ultimi sei mesi analisi spericolate sulla grande fuga dal piccolo schermo. Numeri alla mano, le cose non sono così disastrose: ogni sera in prime time sono oltre 23 milioni gli italiani davanti allo schermo. Certo, due milioni in meno del boom da lockdown ma proprio per questo per tirare le somme catastrofiche occorre prudenza. «Lo stato di salute è comunque buono e il confronto con due anni pandemici drogati dal lockdown è rischioso», spiega a PanoramaMassimo Scaglioni, Professore ordinario di Storia dei media ed Economia e marketing dei media all’università Cattolica di Milano. «Siamo tornati ai livelli prepandemici, con un’eccezione negli ultimi tre mesi: da aprile a giugno si è registrato un calo consistente, meno 1 milione di spettatori nelle 24 ore, dovuto al grande caldo anticipato e all’effetto “liberazione” dopo due anni chiusi in casa. Si tratta di fattori contingenti, una sorta di rinculo dopo la pandemia. Ma, in generale, non ci sono grandi variazioni».
Com’è il bilancio della stagione tv che si è appena concluso? Buono, ma senza grandi scossoni. Della serie: gli editori sono bravi e capaci ma non si applicano. O meglio, difficilmente rischiano. Meglio l’“usato sicuro” della sperimentazione che non produce risultati, soprattutto sulla generalista, e in questo caso l’esempio più eclatante è stato l’arrivo di Alessandro Cattelan su Rai1, con il suo Da Grande bocciato dagli ascolti (infatti in autunno tornerà, ma su Rai2 con EPCC in seconda serata, dove qualche barlume di sperimentazione ancora si può azzardare). Semplificando al massimo: tradizione batte innovazione. Anche perché c’è sempre da fare i conti con gli investimenti e la pubblicità. «L’atteggiamento degli editori, nessun escluso, è troppo difensivo. In particolare, quelli tradizionali temono che si apra troppo a nuovi soggetti e che la torta pubblicitaria vada a dividersi ulteriormente: per questo tendono a mettere testa sotto la sabbia», osserva il professor Scaglioni. Ma qualcosa si muove, e anche molto in fretta, soprattutto per via dell’accelerazione tecnologica: nel 2023 ci sarà la sostituzione dei televisori e l’ingresso nelle case degli italiani delle tv connesse apre uno scenario completamente nuovo. Tanto che i sistemi di rilevazione degli ascolti sono profondamente cambiati negli ultimi mesi.
Tornando alla stagione appena conclusa e alle fresche presentazioni dei palinsesti Rai e Mediaset, emerge un dato che riguarda in particolare i talk e i programmi di approfondimento. «Non sono ma stati così in buona salute. Complici la pandemia e ora la guerra, il pubblico che segue l’approfondimento è cresciuto ed è diventato più assiduo: basti pensare al martedì sera, quando i talk nel loro complesso superano il 15% di share», rivela Massimo Scaglioni. Ecco perché Pier Silvio Berlusconi, rispondendo alle domande dei giornalisti, non ha nascosto la sua soddisfazione per la “rivoluzione di Rete4”: «Era un progetto in cui in pochi credevano. I risultati oggi sono sotto gli occhi di tutti con il 6% medio di share. Battiamo anche La7», gongola l’ad Mediaset. «Il riposizionamento di Rete4 è una delle operazioni più riuscite degli ultimi anni ed è un peccato che una cosa simile non sia stata in grado di farla la Rai. Mediaset ha dato grosso respiro a Rete4, ha conquistato un pubblico più maschile, più trasversale e colto rispetto al passato», aggiunge Scaglioni. Secondo il quale i talk sono convenienti per le reti, perché con poca spesa e costi bassi garantiscono massima resa e buoni ascolti. «Certo, poi bisognerebbe aprire una lunga riflessione sul modo in cui certi temi vengono affrontati per fare ascolti e sulla deriva che ha preso la polarizzazione del dibattito».
C’è la tv tradizionale, ci sono le reti digitali e poi ci sono le piattaforme che incarnano il “grande spauracchio”. Il numero di abbonati cresce, anche se meno di quanto ci si aspettasse (vedi il primo grande calo di Netflix, che comunque in Italia è cresciuto di un milione in un anno arrivando a 5 milioni di abbonati), ma resta complicato capire quanto pesino visto che non rilasciano le rilevazioni sul numero di spettatori. Quanti sono ogni sera? Difficile dirlo, ma alcune indicazioni iniziano ad emergere grazie all’«ascolto non riconosciuto» (ad esempio l’utilizzo dello schermo per attività di gaming, gli ascolti generati dalla fruizione di canali radiofonici, il browsing dedicato alla consultazione dei cataloghi on-demand, l’utilizzo dello schermo per attività di mirroring), che vale almeno il 14% dell’ascolto complessivo. Tradotto, le abitudini sono profondamente cambiate e circa 10 milioni di italiani cercano vie alternative al palinsesto tradizionale nel prime time. «Dove vadano e cosa facciano e difficile dirlo con precisioni ma la correlazione con le piattaforme c’è. Seguendo le curve, ad esempio, si è notato che in corrispondenza di eventi come la Champions League su Prime Video o il rilascio di Stranger Things 4 si sono registrati movimenti significativi. Ma, in generale, bisogna andare verso una trasparenza ancora maggiore dei dati», spiega Scaglioni.
L’altro grande tema riguarda poi i giovani e la fuga dalla generalista, di cui si discute da anni. «Il punto non è dire “è una battaglia persa” ma capire come innovare il contenuto per intercettare target meno presenti sulla tv», dice Scaglioni. Che mette sul tavolo degli esempi concreti e recenti: «Che le abitudini dei giovani siano diverse è scontato dirlo, ma i dati del concerto di Fedez su Italia1 e quelli del Tim Summer Hits su Rai2 ci dicono che ci sono dei titoli e degli eventi capaci di attrarre pubblico giovane. Lo stesso vale per le ultime edizioni di Sanremo. Non è battaglia perduta ma servono più coraggio e scelte ragionate: Cattelan su Rai1 era un’operazione sbagliata, Il Collegio su Rai2 va trattato con cura invece lo hanno demolito con una programmazione errata. Idem X Factor, un caso in cui l’innovazione è stata fatta in maniera imperfetta, tanto che la prossima stagione sarà una sorta di ritorno al passato». Secondo Scaglioni, poi, è fondamentale recuperare la centralità del contenuto. Solo così si attraggono i giovani ed è così che si vince la battaglia dello streaming: «I marchi forti sbancano, hanno la capacità di generare flussi e sono in cima al ranking della total audience. Penso ai programmi della De Filippi, ai reality, alla grande serialità Rai, allo sport e alle news di Sky».
Alla luce di tutti questi dati, come sarà la stagione tv 2022/2023? Se la Rai sperimenterà parecchio soprattutto su Rai2, provando ad innescare una rivoluzione dopo diverse stagioni di ascolti a picco, Mediaset invece tenterà qualche esperimento sul fronte dell’intrattenimento, su Canale5 e soprattutto su Italia1. In attesa che anche Sky e Discovery svelino le loro carte, per ora siamo sul terreno dei palinsesti “fotocopia”. O quasi. «La tv è conservativa, va ad un ritmo abbastanza limitato e fa fatica a provare cose nuove. Gli elementi più innovativi verranno dalle piattaforme che in un anno ha triplicato il numero di prodotti originali in Italia, pensiamo a LOL-Chi ride è fuori su Prime, Le Fate ignoranti su Disney+ e gli altri progetti annunciati pochi settimane fa da Netflix. Crescono i nuovi titoli – e cresceranno ancora sul fronte deli documentari e del crime - ed è un tema che porta innovazione», sottolinea Scaglioni. In questo senso, il confronto-scontro con le generaliste si fa ancora più evidente, soprattutto alla luce degli annunci di Reed Hastings, cofondatore e amministratore delegato di Netflix, che si è detto “abbastanza aperto” alla possibilità di un piano di abbonamento con pubblicità, che potrebbe arrivare nel giro di uno o due anni. «Questo acuirà lo scontro tra tv tradizionale e piattaforme per la raccolta pubblicitaria. Ma la generalista resta la tv del presente, del qui e dell’ora, ed è un punto di riferimento cui il pubblico per ora non è intenzionato a fare a meno».