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August 11 2014
La decisione di Barack Obama di dare il via all’ennesimo intervento militare statunitensi in Iraq si presta a diverse valutazioni. Sul piano militare i primi modesti raid aerei americani condotti finora con droni Reaper e cacciabombardieri F/A-18 imbarcati sulla portaerei George H. Bush hanno portato a risultati poco rilevanti nell’ambito della guerra contro lo Stato Islamico: distrutti una decina di veicoli, un lanciarazzi campale e un mortaio con la morte di una trentina di miliziani.
Sul piano psicologico però l’intervento di Washington, che finora si era rifiutata di impiegare le sue armi contro lo Stato Islamico, ha rincuorato le truppe di Baghdad e quelle curde che da un paio di giorni sono al contrattacco mentre in ambito internazionale dietro agli Stati Uniti sembrano muoversi anche i franco-britannici e forse gli italiani.
Nella decisione di Obama (presa con riluttanza secondo il New York Times ) hanno pesato almeno tre valutazioni condivise da molti analisti.
-Innanzitutto la necessità di aiutare gli alleati curdi, protetti dagli americani fin dal 1991 (all’indomani della guerra per la liberazione del Kuwait) il cui territorio rischia di essere invaso dai miliziani dello Stato Islamico. I qaedisti si trovano a pochi chilometri dalla capitale Erbil (settore dove infatti si concentrano i bombardamenti americani) in cui si trova un consolato statunitense, una grande base della CIA e molti consiglieri militari che addestrano e appoggiano i peshmerga, i combattenti curdi.
- Senza dubbio ha pesato anche il rischio che questi cittadini americani potessero venire uccisi o catturati dai qaedisti come accadde al consolato di Bengasi l’11 settembre 2012. Ha pesato inoltre l’emergenza umanitaria che coinvolge ameno 100 mila cristiani e 50 mila yazidi cacciati e braccati dai qaedisti che non hanno solo obiettivi di “pulizia religiosa” ma puntano a occupare case e sequestrare beni e giovani donne per ricompensare le migliaia di volontari che affluiscono da tutto il mondo islamico per combattere sotto le bandiere del Califfato. L’aspetto umanitario non è secondario nell’intervento americano dal momento che le prime missioni aeree sull’Iraq hanno visto proprio il lancio di generi di prima necessità ai profughi in fuga sulle montagne.
- A facilitare i successi conseguiti dai qaedisti contribuiscono anche la profonda crisi istituzionale a Baghdad, dove il presidente curdo Fuad Masum e il premier sciita Nouri al-Maliki sono ai ferri corti, e la disastrosa situazione dell’esercito iracheno fiaccato da scarso addestramento e un boom di diserzioni.
L’iniziativa di Obama ha però il limite di non essere risolutiva, di non avere ambizioni né obiettivi definiti e di essere caratterizzata dalle ambiguità di fondo che hanno caratterizzato sul piano militare i due mandati dell’attuale presidente. Circa l’intervento in Iraq il presidente Obama ha detto cose diverse in molti casi non compatibili tra loro.
Ha dichiarato di voler impedire la costituzione di uno Stato Islamico tra Iraq e Siria ma arriva tardi perché l’entità islamista è già stata proclamata, controlla ampi territori ed è all’offensiva su tutti i fronti dall’Iraq al Libano.
Ha garantito che non vi sarà l’impiego di truppe di terra in Iraq ma senza di esse i raid aerei potrebbero risultare insufficienti specie se le truppe di Baghdad dovessero subire altri rovesci.
Obama ha detto che gli Stati Uniti non costituiranno l’aviazione dell’Iraq ma di fatto è quello che stanno facendo poiché i curdi non dispongono di forze aeree e Baghdad può mobilitare solo una ventina di vecchi Sukhoi 25 forniti da russi e iraniani e dotati di armi non guidate, bombe iraniane imprecise che rischiano d uccidere anche molti civili.
Il presidente americano vuole poi imporre a Baghdad un governo di unità nazionale liquidando lo sciita al-Maliki che pure ha vinto anche le ultime elezioni incassando peraltro le congratulazioni di Washington. Maliki certo ha fatto molti errori emarginando i sunniti che oggi appoggiano quasi tutti lo Stato Islamico, tuttavia una crisi di governo con i qaedisti alle porte di Baghdad potrebbe non rappresentare un’idea vincente soprattutto tenendo conto che la maggior parte dei sunniti non sembra oggi disposta a condividere nulla con gli sciti appoggiati sempre più direttamente dall’Iran.
Infine la contrapposizione diretta con lo Stato Islamico rischia di risultare una “medaglia” per il leader islamista Abu Bakr al-Baghdadi che infatti ha già minacciato gli Stati Uniti consapevole che la guerra a Washington gli garantirà un massiccio flusso di volontari e l’opportunità di emulare in popolarità Osama bin Laden.