Omicidio all'italiana di Maccio Capatonda: l'assassino eletto al televoto - La recensione
Benvenuti ad Acitrullo – Il paese della morta ammazzata.
Il cartello sta là, piantato al ciglio dell’esile serpente d’asfalto che porta a un grappolo di case arroccate tra i monti molisani. Paese dimenticato. Forse non da Dio ma sicuramente dagli uomini e dalle donne: sia che ci abitino e vogliano scappare, sia che non ci abitino e che, dunque, neppure sappiano che esista. Di questo paese e del suo quasi nulla è sindaco Piero Peluria (Marcello Macchia/Maccio Capatonda), affiancato da un fratello vicesindaco più stralunato di lui, Marino Peluria (Luigi Luciano/Herbert Ballerina) che vive nel mito metropolitano di Campobasso sua terra promessa. Entrambi - ma non solo loro – al centro di Omicidio all’italiana che Maccio firma anche da regista (uscita in sala il 2 marzo) per la sua seconda prova alla macchina da presa dopo Italiano medio.
L'eccesso di famiglia
I Peluria. Così si chiamano. Non solo perché il Piero unito al cognome richiama un cantante nella cifra di storpiatura parodistica e di assonanza (Totò ne era maestro, Capatonda è un habitué), ma anche perché, incoercibili e inarrestabili, i peli crescono e si espandono sui loro corpi a velocità vorticosa, tanto che neppure la più solerte delle tosature riesce ad arginarne il proliferare sfrenato.
Detto dei peli diciamo di Acitrullo, dove il sindaco svolge il suo compito improbabile davanti ai quattro gatti che vi abitano; e dove la morte improvvisa per soffocamento di una donnona ingorda, la Contessa Ugalda Martirio in Cazzati (Lorenza Guerrieri) stanca di finanziare le assurde iniziative di quell’assurda giunta, potrebbe risolvere tutti i problemi di quel paese poverissimo in piena emorragia di abitanti e di idee.
Tutti piegati alla Tv
Come? Trasformando la morte accidentale di quella filantropa, che i Peluria chiamano licantropa, in delitto efferato e misterioso. Tanto enigmatico da richiamare l’attenzione del famoso programma televisivo Chi l’acciso? e dell’inevitabile, incontenibile flusso del turismo voyeuristico che si pasce di visite ai luoghi dell’orrore con relativa scorpacciata di selfie. Altrettanto inevitabile l’invasione delle telecamere, con la Tv che s’affanna a costruire la sua, di verità, al di là e al di fuori di quella obbiettiva, strillante nell’arena mediatica coi megafoni della trasmissione tribunalizia pilotata e incanalata dalla conduttrice-diva Donatella Spruzzone (Sabrina Ferilli). E al diavolo le intuizioni dell’agente Farina (Enrico Venti/Ivo Avido) regolarmente smentite dal Commissario Fiutozzi (Gigio Morra) totalmente ipnotizzato dalla divina Spruzzone…
Un po’ giallo un po’ arancione
A suo modo un giallo, forse un arancione. Destinato, chissà, a proclamare l’assassino attraverso il televoto. Come fosse il vincitore di un quiz. In un arrembante, demenziale e contagioso inseguirsi di nonsense, gag, paradossi per un imperioso viaggio nel ridicolo, all’insegna dello humour farneticante e dell’elogio dell’Uomo Debole.
Con meditata “idiozia”
Eppure, sotto questa scorza elettrica e nel segno di una “idiozia” strutturata con calcolo intelligente, si muovono contenuti di un certo risalto. Sono le protuberanze di una riflessione e di una osservazione abbastanza acide e per nulla scontate sui vizi e le deviazioni di un’Italia vista attraverso lo specchio deformante dell’esasperazione televisiva: capace di trasformare Cogne o Avetrana, tanto per menzionare località “privilegiate” come avviene nel film per il paesino di Acitrullo, in una mèta turistica ambìta dai forzati della cronaca nera; o determinare flussi di opinione all’interno di studi tv dove la morte diventa show e si fronteggiano avvocati, opinionisti e criminologi pronti a trasformare le ipotesi più fantasiose e antiscientifiche in certezze assolute. Magari ai confini di una realtà sacrificata sull’altare dello share col plauso di spettatori adoranti.
Un cinema ben articolato
È solo satira, certo. Ma convincente e indovinata. Se si ha il giusto spirito – e noi confessiamo d’averlo – si ride molto durante la visione e a posteriori, ripensando le battute. Tipo quella che, nella descrizione delle attività sportive in quel paese derelitto, cita le performance della specialità agonistica dei “cinque metri-piano”. E via così. Un esempio tra i mille, in un racconto che sarebbe sbagliato ridurre ad una, sebbene divertente, sequenza di siparietti. Perché il film, a differenza del precedente Italiano medio e naturalmente della valanga di sketch e corti generata sui teleschermi e in rete dalla banda Capatonda-Ballerina, ha una sua costruzione razionale e articolata al di fuori dello stesso, riuscito approccio comico.
Le scene sono ben raccordate, i tempi sono sempre giusti, la recitazione ha una sua felice armonia corale concedendo ovviamente ai fratelli Peluria la migliore espansione espressiva (il trasformista Maccio recita anche altri due personaggi, Filippo Bello e l’innocuo veneto Eugenio Normale a capo di una truce famiglia camorrista al fianco di sua moglie Fabiola interpretata da Antonia Truppo). Con tanto di sberleffo se non addirittura con il bras d’honneur.
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