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November 20 2013
La lunga serie di teorie della cospirazione dietro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy inizia pochi minuti dopo l’attentato, quando Robert Kennedy, fratello del presidente e ministro della Giustizia, riceve una gelida telefonata da parte del capo dell’FBI, J. Edgar Hoover, che con freddo linguaggio burocratico comunica al suo superiore: “Hanno sparato al presidente, la terrò informata”.
È in quel momento che Robert inizia a dubitare che dietro l’attentato al fratello ci sia qualcosa di più dell’azione di un folle emarginato. Il folle sarebbe Lee Harvey Oswald, un ex marine venticinquenne che, dopo essere stato visto fuggire dal portone della Texas Book Depository di Dealey Plaza (luogo dell’attentato), si dà a una fuga disordinata - durante la quale incontra e uccide un agente di polizia, Frank Tippit - finché si rifugia in un cinema, dove viene arrestato poche ore dopo l’attentato. Oswald si dichiara da subito innocente, ma il fucile Manlicher-Carcano trovato ai piedi di una finestra al terzo piano del Book Depository (luogo da cui sono partiti i colpi) è di sua proprietà e sopra ci sono le sue impronte.
Due giorni dopo, Oswald viene ucciso nei locali della polizia di Dallas da uno strano personaggio: Jack Ruby, gestore di locali a luci rosse, protettore e piccolo malavitoso in contatto con mafiosi italiani. Ruby dichiarerà di aver sparato all’assassino del presidente, dopo aver visto in televisione le lacrime della signora Kennedy, Jacqueline. Fin qui è storia nota.
Le lacune della Commissione Warren
Immediatamente dopo la morte di JFK, il nuovo presidente Lyndon Johnson istituisce una commissione d’inchiesta, composta da sette alte personalità del Congresso e dell’alta burocrazia americana, e guidata dal presidente della Corte Suprema, Earl Warren.
Per capire come la Commissione affrontò quell’impegno, oggi abbiamo a disposizione un eccellente lavoro del giornalista americano Philip Shenon (“Anatomia di un omicidio” uscito da poche settimane per i tipi della Mondadori), che prende in esame l’intera vicenda Oswald-Kennedy, a partire proprio dai lavori dei commissari. È una ricerca molto seria che svela elementi documentali inoppugnabili, tenuti nascosti allo staff dei sette commissari o da loro male interpretati.
Un dato inoppugnabile è che Lee Harvey Oswald non aveva mai nascosto i propri sentimenti filo-castristi e filo-marxisti. Il giovane fu congedato “con disonore” dal corpo dei Marines anche perché si vantava che - una volta terminato il periodo di servizio militare - avrebbe usato le tecniche di guerra apprese alla scuola di guerra dei Marines per “andare a Cuba e istruire i miliziani di Fidel Castro”.
Dopo il congedo - e il tutto era a conoscenza di CIA, FBI e Dipartimento di Stato - Oswald decide di trasferirsi in Unione Sovietica, dove risiederà dal ’59 al ’61. Sembra che le autorità di sicurezza russe si siano trovate in imbarazzo di fronte alle plateali dichiarazioni anti-americane dell’ex Marine, per cui decidono di trasferirlo a Minsk (oggi Bielorussia), lontano dai riflettori delle ambasciate e dei media occidentali.
A Minsk non solo i russi istruivano gli agenti castristi di Cuba, non solo la scuola dei cubani era a pochi passi dall’abitazione di Oswald, ma il direttore della scuola di addestramento - un colonnello del KGB - era lo zio della donna che Oswald prese in moglie. Tornato negli States con la moglie russa, Oswald si trasferisce prima a New Orleans e poi a Dallas, in Texas, dove trova lavoro come custode proprio in quel Book Depository da cui verranno esplosi i colpi contro il corteo del presidente.
È sufficiente questa catena di circostanze a far sospettare che Oswald abbia agito in combutta cin i servizi segreti sovietici e cubani per uccidere Kennedy? No, forse non è sufficiente. Ed è quello che si sono probabilmente detti i membri della Commissione Warren sin dalla loro prima riunione. Dopo aver parlato col presidente Johnson, il giudice Warren si dichiara terrorizzato all’ipotesi che dietro l’omicidio ci possano essere i sovietici e i cubani: se si fossero trovate prove in questo senso, infatti, gli Stati Uniti avrebbero dovuto “scatenare una guerra mondiale”.
Il party a Città del Messico
È proprio la paura di trovare le prove di una cospirazione a condizionare i lavori della Commissione Warren, i cui membri metteranno da parte qualsiasi indizio o sospetto cospirativo per sostenere a spada tratta la tesi del “matto isolato” come autore dell’omicidio. In questo, la Commissione viene aiutata dalla CIA, dall’FBI e dal Secret Service: tutti e tre gli organismi della security USA lavorano per cancellare le tracce della loro conoscenza dei precedenti di Oswald.
Stupisce in questo senso l’incredibile catena di omissioni - non si sa se volontarie o meno - per cui nessuno degli addetti alla sicurezza di Kennedy sapeva che a lavorare nell’edificio che avrebbe dominato la parte più lenta del corteo presidenziale, c’era proprio l’uomo che aveva dichiarato apertamente di voler vendicare Fidel Castro per “l’aggressione alla Baia dei Porci e per i tentativi di omicidio del leader cubano, organizzati dalla CIA con l’autorizzazione del presidente e l’aiuto della mafia italo-americana”.
Leggerezza? Incompetenza? Gelosie burocratiche? Forse un po’ di tutto questo. Certo è che le teorie della cospirazione non si sono basate sulle fantasie di qualche esaltato, ma su una serie di episodi decisamente inquietanti.
Il più inquietante di tutti è il viaggio che Oswald compie nell’ultima settimana del settembre 1963 a Città del Messico, quando il giovane, pur se semi-disoccupato, con moglie e due figlie a carico, decide di utilizzare i pochi soldi a disposizione per una misteriosa trasferta nella capitale messicana, seguita dalle telecamere di sorveglianza della CIA, che lo riprende mentre entra ed esce più volte dalle ambasciate di Cuba e Unione Sovietica. Non solo la CIA non vuole scoprire i motivi di tale visita, ma sembra evitare di proposito di comunicare all’FBI questi e altri movimenti di Lee Harvey Oswald.
Secondo una testimonianza acquisita dalla Commissione Warren, la sera prima del suo ritorno negli USA Oswald partecipa a un party in un lussuoso appartamento di Città del Messico. La testimone, la scrittrice messicana Elena Garro De Paz, afferma che Lee si sarebbe presentato in compagnia di “due bianchi presumibilmente americani”. Non solo: quella sera è presente allo stesso party anche Eusebio Azque, capo dello spionaggio cubano a Città del Messico.
Mancano due mesi dall’assassinio e nessuno, nelle alte sfere dello spionaggio americano, si è ancora chiesto se questo ex marine sia semplicemente uno svitato inoffensivo o una pedina del “grande gioco” della Guerra Fredda.
La scrittrice messicana fa una dettagliata relazione all’ambasciata americana della serata del party e ne parla in modo approfondito col numero due della sede diplomatica, Charles Thomas. Thomas riferisce quindi ai suoi colleghi ma poco tempo dopo viene richiamato negli Stati Uniti dove, a distanza di qualche anno, riceve un’inspiegabile lettera di licenziamento.
Sconvolto, Charles Thomas scrive allora un dettagliato memorandum per il Segretario di Stato americano - oggi ritrovato negli archivi della CIA - nel quale sostiene che la Commissione Warren non ha intenzionalmente preso in esame i contatti tra Oswald e i cubani. Dopo aver inviato il memorandum, Thomas si suicida in casa con una revolverata alla testa.
Oswald è meglio di niente
Rientrato a Dallas, Lee Harvey Oswald compra il fucile col quale sparerà a Kennedy e, senza che la polizia locale ne sappia niente, pochi giorni prima dell’attentato lo usa per sparare anche al generale Walker, un militare in pensione famoso per le sue idee di estrema destra. Al momento dell’attentato al generale, Walker è nel suo studio e un colpo di fucile penetra nella sua finestra e si pianta nel muro alle sue spalle, a pochi centimetri dalla testa. Oswald confesserà l’attentato alla moglie Marina, che ne riferirà alla Commissione Warren.
Sono tante le stranezze nel caso Oswald-Kennedy e, messe tutte insieme, offrono un quadro impressionante. Volendo azzardare l’interpretazione più semplice e minimalista, Oswald parla con i cubani e forse con i sovietici delle sue intenzioni di assassinare Kennedy, senza però riceverne l’appoggio esplicito. Viene però “lasciato fare” perché, se quel piano solitario va in porto, tanto meglio: il presidente che ha tentato di far assassinare Fidel Castro e ha umiliato l’Unione Sovietica durante la crisi dei missili cubani del 1962, potrebbe essere tolto di scena da un cittadino americano in terra texana. Un delitto perfetto.
Che Cuba sia a conoscenza delle intenzioni di Oswald parrebbe confermato anche dal massiccio e insolito aumento del traffico radio tra la capitale cubana e Dallas, nelle ore che precedono l’assassinio di Kennedy, lasso di tempo durante il quale le comunicazioni di Cuba con le altre ambasciate si riducono drasticamente.
L’ipotesi del matto solitario, in definitiva, ha fatto comodo a tutti. In particolare, agli apparati di sicurezza americani che, in questo modo, hanno evitato di dover rispondere alla Commissione Warren delle loro incredibili mancanze nella prevenzione dell’attentato e dei depistaggi con i quali hanno tentato di coprire, se non la teoria del complotto, quantomeno la propria incredibile incompetenza. Giungere a un’altra verità più scomoda, del resto, avrebbe portato il mondo verso una nuova guerra.
Nella prossima puntata, scopriremo invece che il filmato di un sarto di Dallas, Abraham Zapruder, riapre tutti i giochi e offre un’interpretazione balistica non corrispondente alla teoria di “Oswald killer solitario”: il secondo proiettile che colpisce il presidente Kennedy al cranio, viene chiaramente dal davanti dell’autovettura presidenziale. Forse proprio da quel “poggio erboso” dal quale molti testimoni affermarono di aver sentito sparare.
Il video amateoriale di Zapruder
La balistica potrebbe allora dimostrare che Lee Harvey Oswald ha agito con dei complici, forse proprio quei “due bianchi apparentemente americani” con i quali si è recato al party a Città del Messico e dove era presente anche un pezzo grosso dell’intelligence cubana.