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April 11 2018
L’astro di Viktor Orbán brilla sempre di più a Budapest e il suo trionfo - la conquista del terzo mandato consecutivo dal 2010 e di oltre due terzi del Parlamento ungherese (133 seggi su 199) - lo proietta alla testa di un vasto fronte popolare transnazionale dentro l’Unione europea che si esprime in primo luogo nel gruppo di Visegrad. Il quartetto di paesi che comprende Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia costituisce una forza a sé, ideologica e culturale, che è sbagliato definire anti-europea nelle intenzioni, ma che piuttosto ambisce a essere portatrice dell’autenticità dei valori europei, per non dire occidentali, sottoposti all’assedio dei flussi migratori, del terrorismo islamico e della curva demografica (gli europei fanno sempre meno figli).
Un’altra Europa quella raccontata dal leader ungherese, che si contrappone alle capitali dell’Ovest, Berlino e Parigi, e all’eurocrazia di Bruxelles. Ma che fa breccia in Baviera, in Francia nei movimenti anti-Macron per nulla spazzati via, in Austria e adesso in Italia. Un’altra visione del continente, che sfida la leadership di Angela Merkel pur gravitando nella sua orbita, che guarda a Putin non come nemico ma come potenziale alleato nella resistenza all’espansionismo islamico, e che intende preservare le radici continentali invece che aprire le porte al melting pot globale.
Orbán ha scelto le parole d’ordine di maggior impatto, lanciando un chiaro messaggio sovranista e suprematista: essere europei non significa smettere di essere anzitutto ungheresi, o tedeschi o italiani o francesi, né ripiegare davanti all’ondata migratoria e all’offensiva islamista. Perciò ha eletto a proprio antagonista una figura simbolica, l’incarnazione del globalismo finanziario liberal, il magnate americano di origini magiare George Soros, e la sua rete di Organizzazioni non governative dedite all’accoglienza e alla promozione dei diritti umani.
Per questo ha ordinato la costruzione di un “muro” che non è un muro, una barriera di filo spinato che separa il suo paese dalla Serbia, dai Balcani meridionali, sbarrando il passo ai migranti clandestini che arrivano dal Medio Oriente attraversando Turchia e Grecia. Al tempo stesso, Orbán ha realizzato in economia un mix di misure liberali come l’introduzione della flat tax, oppure “ideologiche” come gli incentivi fiscali per le famiglie con più figli, ma esaltando anche il ruolo dello Stato nella regolazione e occupazione dei settori strategici (banche e energia).
Il risultato è la crescita del 4,2 per cento del PIL nel 2017, un’espansione prevista dell’economia del 4,1 nel 2018, e la disoccupazione crollata al 3,8 per cento. Oggi l’Ungheria attira capitali e aziende straniere, tra le quali molte italiane. È vero che generalmente i Paesi dell’ex cortina di ferro sono in crescita, alcuni più dell’Ungheria, ma i risultati economici del “sistema Orbán” sono comunque sotto gli occhi di tutti.
Il paradosso è che mentre il leader ungherese sfida le istituzioni di Bruxelles, continua però a beneficiare dei fondi strutturali elargiti proprio dagli eurocrati brussellesi (34 miliardi fino al 2020). Il blocco conservatore europeo è rappresentato oggi dalla Mitteleuropa, quell’Austria-Ungheria che storicamente è stata antemurale della cristianità come baluardo contro l’avanzata dei “turchi”. La suggestione vincente di Orbán è che l’invasione oggi avvenga non più con le spedizioni dei Sultani ma tramite lo stillicidio quotidiano di arrivi dei migranti e la progressiva “diluizione” dell’identità europea.
Si tratta di una sfida culturale e politica contro la quale Bruxelles, Berlino e Parigi dovranno mettere in campo ben altro che gli atteggiamenti snobistici che hanno prevalso finora. In gioco c’è un’idea di Europa. Sarebbe già tanto cominciare a capire che Orbán, nonostante tutto, ne fa parte.