News
September 13 2018
Un cartellino giallo inviato dalla Cancelliera Angela Merkel al premier ungherese Viktor Orbán. Destinato, quasi certamente, a restare lettera morta dal punto di vista delle sanzioni al governo di Budapest.
Ma pur sempre un messaggio politico forte ad appena otto mesi dalle elezioni europee. Tanto più perché deflagrato tutto all'interno del gruppo PPE, spaccato da questo voto.
È la prima volta che contro un partner europeo viene attivato l'articolo 7, che prevede sanzioni nel caso in cui questo violi i valori fondamentali dell'Ue: il rispetto per la democrazia, l'uguaglianza, lo Stato di diritto e i diritti umani.
La relazione della 44enne olandese Judith Sargentini, dal 2009 eurodeputata dei Verdi, ha messo i capi d'accusa nero su bianco in 64 pagine e ha convinto l'Aula di Strasburgo a larga maggioranza: 488 si contro 197 no, solo 48 gli astenuti. Un risultato impensabile alla vigilia del voto di mercoledì 12 settembre.
Soprattutto perché a fare la differenza è stato proprio Manfred Weber, bavarese, 46 anni, a Strasburgo dal 2004 e da poco a capo del gruppo popolare, lo stesso in cui siede Orbán e gli altri eletti del suo partito Fidesz.
A lui si deve il cambio di rotta dentro la famiglia PPE, concretizzatosi la sera prima quando è stato deciso di lasciare libertà di voto agli eurodeputati.
Il risultato è stato che fra i 216 colleghi di Orbán solo 59 hanno votato per salvarlo (fra questi Forza Italia) e 28 si sono astenuti (a favore della procedura contro l'Ungheria la CDU tedesca, astenuti popolari spagnoli e Republicain francesi).
La stessa Sargentini, nella conferenza stampa dopo il voto, ha sottolineato il suo ruolo: «Ho ringraziato personalmente Weber perché la sua azione è stata di grande livello. Il resto è un problema che riguarda il suo gruppo». Ma è evidente che Weber, dato già in lizza come prossimo candidato alla guida della Commissione europea, ha agito con il beneplacito della Merkel.
Del resto, non dare alcun segnale all'escalation di iniziative dal piglio sempre più autoritaristico del governo ungherese sarebbe stato ormai impossibile, soprattutto dopo il lungo e acceso dibattito che, martedì 11 settembre, ha animato l'Aula di Strasburgo (per la verità, molto più dell'ultimo discorso sullo Stato dell'Unione pronunciato dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker il giorno dopo).
Un confronto, a tratti appassionato, sulla democrazia e la libertà. Orbán, presente nell'emiciclo, salutato come «eroe» o accusato di essere «spazzatura», è rimasto plasticamente immobile a tutto, apparentemente impassibile. Al punto che diversi onorevoli, intervenendo in Aula, gli hanno apertamente chiesto: «Perché non ci guarda mentre parliamo con lei?».
Che cosa succede ora?
La parola passa al Consiglio europeo ed è chiaro che qui i paesi dell'Est saranno compatti nella difesa di Orbán. Il primo a dichiararlo, la sera del voto dell'Europarlamento, è stato il governo polacco anch'esso soggetto ad analoga inchiesta da parte della Commissione europea (anche il vicepremier Matteo Salvini ha annunciato che si opporrà, mentre il M5S ha votato per sanzionare l'Ungheria).
La stessa Sargentini ha annunciato la sua visita a Varsavia la prossima settimana (oltre a due missioni di delegazioni parlamentari a Malta e Slovacchia per i casi dei due giornalisti uccisi).
Che cosa farà Orbán? Il premier ungherese usa tirare la corda senza strapparla del tutto.Ma l'onorevole olandese resta scettica e confessa: «Non credo che il governo ungherese cambierà spontaneamente, ripristinando il rispetto dello Stato di diritto e la parità di trattamento».
E, davanti a chi ricorda che l'Ungheria riceve 87 milioni di euro a settimana dall'Ue, precisa: «Io non sono per toglierli ma per verificare come e da chi vengono usati questi fondi europei».
Ma è chiaro che la partita non è chiusa. Un no del Parlamento europeo avrebbe legittimato ancora di più Orbán e il fronte dei paesi di Visegrad. Il sì, tuttavia, rischia di innescare una reazione nei cittadini dell'Est e rafforzare i nazional-populisti alle prossime europee. Gli euroscettici contano sul malessere degli elettori verso una Ue che non sembra alla portata delle sfide attuali.
Cruciale il nodo della politica sull'immigrazione. La vera mina che Jean-Claude Juncker non è riuscito a disinnescare e che è diventata per l'Ue e il suo progetto comune una minaccia molto più seria di quella che sembrava la Brexit.
L'eurodeputata verde Ska Keller sintetizza il rischio nel suo intervento in Aula: «Temevamo di avere un pericolo fuori da noi e invece è al nostro interno».