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June 06 2023
Una prima tappa di due giorni in Ucraina, cui dovrebbe seguire una visita a Mosca. È questa la «missione speciale» che Papa Francesco ha affidato al cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, investito del cruciale ruolo di negoziatore per la Santa Sede. Il fine? Gettare le basi per un negoziato con la «N» maiuscola. Ovvero ciò che finora non si è visto in alcun modo nell’Est europeo martoriato dalla guerra.
Un abito, quello del negoziatore, che calza alla perfezione al cardinale, il quale è già stato mediatore in numerose trattative: come quella tra il governo del Mozambico e la fazione ribelle del partito Resistência Nacional Moçambicana che condusse, dopo 27 mesi di trattative, alla firma degli accordi di pace di Roma che sancirono la fine delle ostilità. O come quella in Ruanda nel 1993, quando il vero «don Matteo» organizzò i negoziati conclusi con la firma dei primi Accordi di Arusha (anche se poi, come noto, gli scontri ripresero in maniera virulenta). O ancora, come la mediazione dell’agosto di quello stesso anno, quando «il negoziatore» Zuppi portò in salvo quattro testimoni di Geova, due italiani e due svizzeri, che erano stati presi in ostaggio dai guerriglieri del Pkk, il braccio armato della resistenza curda contro la Turchia.
Come scrive Angelo Gallippi nel libro-biografia dedicato proprio a Zuppi (in uscita a fine anno per Paesi Edizioni), «…la Farnesina, che aveva deciso una linea contraria a una trattativa ufficiale con gli indipendentisti curdi, ma favorevole invece a una mediazione da parte di organismi umanitari, chiese alla Comunità di Sant’Egidio se avesse la possibilità di fare da tramite con i rapitori. Don Matteo si mise subito al lavoro e riuscì a stabilire un contatto diretto […] finché, dopo qualche settimana, ricevette la notizia che i curdi erano pronti a liberare non solo gli italiani e gli svizzeri, ma anche un cittadino neozelandese e due turisti tedeschi».
Zuppi è stato protagonista anche della Piattaforma di Roma, mirante a riconciliare l’Algeria neo indipendente ma in preda a turbolenze e scontri da guerra civile, riuscendo a includere tra i firmatari degli accordi di riconciliazione nazionale anche il Fronte islamico di salvezza (Fis), il partito che era stato disciolto dai militari al potere nonostante la vittoria alle elezioni, e che proprio per questo era passato alla lotta armata.
E potremmo citare ancora Burundi, Congo e numerose altre iniziative che il bergogliano Zuppi può vantare, in ragione delle quali è ritenuto universalmente l’uomo giusto per la missione in Ucraina. Il cardinale che «ascolta tutti», che si muove quasi soltanto in bicicletta, in sella alla quale ha percorso una brillante carriera ecclesiastica fino alla presidenza della Cei, sembra davvero l’uomo della provvidenza. Al punto che qualcuno già lo vorrebbe futuro pontefice, anche in ragione delle speculazioni sulla salute di Papa Francesco.
Ma non è ancora il tempo. Oggi serve trovare la «via stretta» per la pace. E, onestamente, la missione del cardinale è al limite dell’impossibile, considerato che Kiev inizialmente neanche legittimava l’iniziativa della Santa Sede, bollandola solo poche settimane fa come qualcosa d’ignoto: «Se ci sono colloqui, stanno avvenendo a nostra insaputa o senza la nostra benedizione» riferì lo stesso presidente Zelensky alla Cnn a maggio. Con il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che all’agenzia Ria Novosti gli fece eco: «No, non si sa nulla» sull’argomento.
Invece, oggi tutto è cambiato. La Santa Sede, mentre discute le basi di un negoziato a Kiev, sta ufficialmente organizzando, in accordo col Cremlino, un incontro al vertice in quel di Mosca: l’inviato del Papa punterebbe a incontrare almeno il patriarca ortodosso Kirill, ma anche un esponente del Cremlino. Inutile sottolineare che quell’esponente non sarà Vladimir Putin, per ovvie ragioni di convenienza-prudenza-paranoia che ormai accompagnano la vita quotidiana del leader russo.
Dopo aver ascoltato in modo approfondito le autorità ucraine circa le possibili vie per raggiungere una giusta pace e sostenere gesti di umanità che contribuiscano ad allentare le tensioni, Matteo Zuppi riferirà al Papa e poi il Vaticano parlerà al mondo diplomatico. Ma nessuno si fa troppe illusioni: già Pietro Parolin, segretario di Stato, ha voluto porre l’accento che la presenza sul terreno di guerra del cardinale non ha «come scopo immediato la mediazione», piuttosto si pone l’obiettivo di «cercare soprattutto di favorire il clima, favorire un ambiente che possa portare a percorsi di pace». Parole sibilline, che tuttavia si spiegano bene decrittando il messaggio affidato ai media da parte di Zelensky subito dopo il colloquio avvenuto col Papa: «Mi attendo sviluppi di portata storica specialmente per la restituzione dei bambini deportati» aveva detto il presidente ucraino uscendo dal Vaticano.
E difatti il dossier più spinoso – ma anche quello su cui si potrebbero aprire i primi veri spiragli di trattativa – è proprio quello dei bambini deportati in Russia in violazione del diritto internazionale. Quell’episodio, che ha portato la Corte penale internazionale a spiccare un mandato di cattura contro Vladimir Putin e la commissaria per i diritti dell’infanzia in Russia, Llova Belova, è dirimente per Mosca. Togliere questa spada di Damocle dalla testa del presidente russo potrebbe essere la mossa decisiva perché il Cremlino apra a una trattativa, visto che in gioco c’è anche la sorte personale di Putin. La garanzia di una via d’uscita sicura per il leader russo in caso di «sconfitta», potrebbe convincerlo a negoziare e forse anche a concedere all’Ucraina più di quanto Kiev non si aspetti. A cominciare proprio dai figli degli ucraini deportati.
Il negoziato di Giorgia
Intanto, in Tunisia è in corso un’altra difficile trattativa, che vede protagonista una persona meno nota nel ruolo di negoziatrice: Giorgia Meloni. La premier italiana si è recata in queste ore a Tunisi per lavorare a un accordo italo-tunisino: uno che getti le basi per la soluzione ai flussi incontrollati di migranti che da mesi si riversano a migliaia sulle sponde italiane. In cambio, Meloni porta in dote la promessa di una mediazione con il Fondo Monetario Internazionale affinché Tunisi ottenga lo sblocco di 1,9 miliardi di dollari indispensabili ad allontanare lo spettro della bancarotta dal Paese nordafricano.
La Tunisia vive infatti una grave emergenza economica, politica e sociale che ha portato l’inflazione a due cifre, la disoccupazione oltre il 16%, un debito pubblico letteralmente esploso e un’economia stagnante: per la Banca Mondiale Tunisi è già adesso in una situazione del tutto simile a quella del Libano, cioè prossima al default finanziario. Il presidente-golpista Kais Saied, dopo aver esautorato il parlamento e aver accentrato i poteri su di sé, è dunque più che propenso a negoziare con Roma.
Sul tavolo, più nel dettaglio, vi sono: la definizione e gestione di flussi regolari di migranti, ossia quelli necessari ad alcuni settori strategici dell’economia italiana; e la rassicurazione da parte di Tunisi circa le nostre infrastrutture energetiche, in particolare sul gas algerino (ormai, il nostro primo fornitore) che per quasi 400 chilometri attraversa la Tunisia prima di toccare il suolo italiano. Il che rientra nel famoso «Piano Mattei» per l’energia che il governo Meloni intende presentare il prossimo ottobre, e che trova nella triangolazione con Tunisi e Algeri (teoricamente, anche con Tripoli) il perno del suo costrutto.
Saied con Meloni vorrebbe anche trattare lo sblocco di 500 milioni di aiuti europei. Su questo punto, però, pesa l’assenza di Ursula Von Der Leyen, inizialmente data a fianco di Meloni nel viaggio nordafricano. La commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, ha però dato l’imprimatur alla missione italiana per conto di Bruxelles, salutando la visita della premier con queste parole: «L’Italia sta giocando un ruolo estremamente importante e costruttivo rispetto alle relazioni e all'importanza di lavorare da vicino con la Tunisia».
In ogni caso, ha aggiunto, la preoccupazione di tutti i Paesi membri è una soltanto: «Abbiamo visto dall'inizio dell’anno fino ad aprile un aumento di arrivi irregolari dalla Tunisia all’Italia 10 volte superiore. Questo non è sostenibile». La commissaria, tuttavia, è ottimista sul fatto che «c'è una grande possibilità che possiamo avere una svolta molto importante giovedì al Consiglio a Lussemburgo» per un accordo politico tra i Paesi membri dell'Ue sul nuovo Patto per la migrazione e l'asilo. Questa sembra, anzi è la prova di maturità del governo Meloni circa la politica estera: se addiverrà a risultati tangibili, potremo dire «missione compiuta». Viceversa, potrebbe essere l’inizio della definitiva perdita della credibilità residua di Roma nel contesto euro-mediterraneo, già messa a dura prova dai governi che – ad esclusione della parentesi virtuosa di Mario Draghi – l’hanno preceduta.