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June 08 2016
«Corro scalzo per sentire meglio quello che mi sussurra la terra»: don Marco Pozza è molto legato a questa frase di Abebe Bikila, l'indimenticabile maratoneta etiope medaglia d'oro alle Olimpiadi di Roma nel 1960. Anche lui maratoneta, don Marco, 37 originario di Calvene, in provincia di Vicenza (altopiano di Asiago), si sveglia prima dell'alba per allenarsi quando deve preparare le maratone. «Mi si è aperto il cuore quando ho sentito Papa Francesco che parlando ai vescovi italiani ha detto che il prete, sul modello di Mosé che si avvicina al roveto ardente, deve essere “scalzo rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa”. E mi ha ricordato subito la frase di Bikila. Dobbiamo essere preti scalzi, se vogliamo ascoltare davvero quello che ci sussurra la nostra terra, la nostra gente. Dobbiamo camminare, correre, gioire e soffrire insieme con i nostri fratelli».
Don Marco è un prete scomodo: già da giovane sacerdote, quand'era viceparroco presso la parrocchia della Sacra Famiglia a Padova, decise di incontrare i giovani nei luoghi della “movida” della città. Divenuto, in breve tempo, popolarissimo, anche in tv, don Marco venne soprannominato don Spritz. Ma questo entusiasmo fuori dagli schemi della pastorale ordinaria lo ha portato in rotta di collisione con l'autorità. «A quel punto», racconta, «anche grazie all'aiuto di monsignor Giovanni D'Ercole, oggi vescovo di Ascoli Piceno e allora in Segreteria di Stato, accettai di andare a Roma a proseguire i miei studi di teologia presso la Pontificia Università Gregoriana».
Un prete di strada
Il rischio, ammette oggi don Marco, «è stato quello di ritrovarmi all'improvviso con una grande notorietà, con un grande sostegno dei giovani, ma troppo solo. La strada ha un fascino meraviglioso, mi disse una volta don Luigi Ciotti, ma se non la affronti con la forza e il sostegno di un gruppo rischia di “mangiarti”». Per questo, racconta il giovane sacerdote veneto, «grazie all'aiuto di chi mi ha voluto bene ho avuto l'opportunità di fermarmi, di tornare a studiare teologia, che è una passione che non ho mai abbandonato, e così ripartire».
Conseguito il Dottorato in Teologia all'Università Gregoriana, don Marco torna a Padova e chiede di poter ricominciare dagli ultimi: «Sapevo che tutti gli occhi erano su di me ma ho chiesto di poter ripartire dalla periferia della periferia: il carcere. Un luogo dove, nonostante le barriere fisiche, ciascuno è chiamato a mettersi in gioco senza schermi né finzioni. Dove ci misuriamo ogni giorno con il tema della misericordia e del peccato. Dove facciamo esperienza quotidiana della forza della grazia e del perdono. Dove il politicamente corretto è costretto a lasciare il passo alla vita reale». Don Marco diventa così cappellano del carcere di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova: «È come una grande parrocchia affidata alla cura di tutta la diocesi. Il carcere non è un mondo a parte. Ma una realtà che ci interroga tutti e che, anzi, è l'unità di misura della nostra civiltà, della nostra capacità di amare, del nostro essere cristiani autentici».
Il Giubileo in carcere
Ecco allora che ogni domenica don Marco - sostenuto in prima persona dal suo nuovo vescovo, monsignor Claudio Cipolla, che ha fatto della chiesa del carcere una delle quattro chiese giubilari di Padova – da qualche anno invita una parrocchia della diocesi ad entrare in carcere per conoscere la realtà, confrontandosi e pregando assieme ai detenuti: «In questo modo migliaia di persone, di giovani, ogni anno scoprono la realtà del carcere e i detenuti sentono più vicina la città». E poi altre iniziative straordinarie come la recita del rosario animato dagli stessi detenuti: «Nel mese di maggio, assieme al vescovo e a quasi duecento persone, abbiamo organizzato la recita del rosario intorno alle mura del carcere. Grazie ai microfoni, i detenuti potevano seguire la preghiera e leggere le meditazioni. Il rischio era che i detenuti utilizzassero quell'occasione per inscenare una protesta. Invece non è accaduto nulla di tutto questo, il silenzio e la preghiera di tutti i carcerati, anche quelli non cattolici, ha accompagnato tutta la preghiera. È stato un momento molto emozionante». Anche il vescovo di Padova è divenuto di casa nel carcere e «per tutti ora è semplicemente don Claudio».
Ma don Marco ha anche una parrocchia virtuale su internet, un sito, www.sullastradadiemmaus.it, dedicato ai giovani e a tutti coloro che sono in ricerca. Che fine ha fatto don Spritz? «Anche don Spritz è dentro l'evoluzione della specie, come tutti. Oggi è un prete che è cresciuto, anche con i suoi errori e con le battaglie che ha compiuto e che ora si è messo al servizio della comunità». Da quando è stato eletto Papa Francesco, confessa don Marco, «mi sono trovato in grande sintonia con le sue parole. Costringe tutti a mettersi in discussione: vescovi, sacerdoti, laici, cardinali. Ma allo stesso tempo trasmette un grande entusiasmo e la spinta ad andare tra la gente. A essere pastori con l'odore delle pecore».
Il premio Agnes
Don Marco Pozza il 25 giugno a Sorrento riceverà il premio speciale Biagio Agnes, presieduto da Simona Agnes, giunto all'ottava edizione e assegnato da una giuria presieduta da Gianni Letta e composta, tra gli altri, dal direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall'Orto, dal prefetto della Segreteria per la comunicazione del Vaticano, monsignor Dario Edoardo Viganò, dal direttore del Tg1 Mario Orfeo e del Sole 24Ore Roberto Napoletano. Tra gli altri premiati ci saranno anche Adam Michnik, direttore e fondatore di Gazeta Wyborcza, una delle poche realtà libere e indipendenti in Polonia, Sergio Lepri, oggi 97enne, direttore dell'Ansa dal 1961 al 1990, Luciano Fontana, direttore de Il Corriere della Sera, Vincenzo Morgante in qualità di direttore della TGR, Testata Giornalistica Regionale insieme con alcuni tra i principali responsabili delle 24 redazioni locali, Antonio Di Bella, direttore di Rainews24, Bruno Vespa e Ilaria D'Amico.